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Una sera parlando di Gilles Villeneuve...
#1
Questo racconto era stato postato nel 2018, ma era pieno di refusi e script e non ho mai capito il perché.

Oggi però è una ricorrenza e lo ripropongo corretto anche per esaudire una richiesta.

L'8 maggio è un giorno particolare e, almeno per me, molto triste. Anche se sono passati 40 anni.

Una sera parlando di Gilles Villeneuve.

[Immagine: gilles_villeneuve_turbo.jpg]
Il suo cognome echeggiava il rombo dei motori, anche se lei, della velocità, nutriva una vera e propria paura. Eppure era la sorella di un pilota famoso, non tra i primissimi della Formula Uno, ma pur sempre uno che si presentava nello schieramento dell’élite dell’automobilismo, in un’era dove, al vertice, non arrivavano solo i raccomandati dai dollari di qualche sponsor. Ed erano tempi in cui, quei bolidi, non erano un sonnifero tutto elettronica o sofisticati computer in schizzato movimento, c’era spazio per il pilota nei termini e nei paragoni dello sport. Lei, veloce di parola e di arguzia, “flirteggiava” con un ragazzo più anziano di me di cinque anni, divenuto amico per qualche annata di saltuari tornei di calcio vissuti assieme. Un uomo ruvido in campo, quanto cordiale e simpatico fuori. Era l’estate del 1982, ed io m’abbandonavo ai comizi, alle riunioni, alla frenesia della politica, con la fede di un animo puro e sognatore, uscito da un frammezzo come il servizio militare, poco edificante allora come oggi, ma a quei tempi impossibile da dribblare col più utile e degno servizio civile. Ero triste, compassavo la passione sportiva, il gusto del racconto e gli idiomi di un’arte strana anche per gli intellettuali che raramente l’han capita, con un sordo obbligo verso l’idea di un bene collettivo che, poi, ho imparato a riconoscere impossibile. Ero ancora addolorato per la perdita di un campione che riassumeva, in se stesso, tutta l’ellisse dell’automobilismo, della creatività che la velocità ed il mezzo meccanico ti può donare, con la convinzione recondita di poter dominare, sempre, quelle creature sì tanta parte dell’ultimo secolo dell’uomo. Una sera, mentre il mare mosso e il collaboratore vento, richiamavano i ricordi spinti su uno strano senso di freschezza che scolpiva i volti, incontrai l’amico con lei. Era un lasso di libertà dalla logorroica vita del politico professionista, ed ero evaso sulla costa per respirare sensazioni diverse, invece, incontrai un altro versante del dolore. Lei ci portò i racconti di suo fratello, dei viaggi che costui aveva fatto col campione scomparso, delle incredibili virtuosità che quel grande partoriva anche sul compagno elicottero. Dei rischi che correva per dare gioia al pubblico della famosa cittadina della sua monoposto di Formula Uno, tutto assiepato, la mattina, sulle 7,30, ad aspettarlo per lo spettacolo che sapeva regalare, gratuitamente. Ci parlò delle paure del fratello, che pure aveva coraggio da vendere, quando il campione faceva roteare quel mezzo ad elica, fino a farlo passare sotto un ponte dove solo gli incoscienti potevano pensare l’attraversamento. Per quel grande era sol normalità. Lui nella guida viveva l’istinto di un alieno, il senso profondo di una testimonianza interna, il pericolo come gemello per senso di dovere. Lo accompagnavano il sorriso di eterno ragazzo e la semplicità degna di chi è nato per dare, più che per ricevere. Attraverso quel fratello ed i suoi racconti, lei trovava la via delle lacrime e le trasmetteva a noi, premettendoci che, nonostante tutto, non riusciva ad essere convincente come lui nell’ammirazione verso quel grande. “Ho visto mio fratello piangere per la prima volta, urlare che non aveva mai conosciuto uno come Gilles, per capacità, fantasia, generosità, senso profondo d’amicizia e rispetto verso i colleghi” – ci diceva con voce sempre più flebile. Ma lei partecipava alle parole del fratello mettendoci del suo: si vedeva che soffriva e noi con lei.

Mentre parlava, fissavo una barca attraccata nell’estremità del molo che il vento e le onde mantenevano su una posizione strana, quasi obliqua, come fosse sul punto di partire, lasciandosi andare alle correnti dirette ed indotte. Era una fotografia ondeggiante, che si legava ai racconti di quella ragazza e sul proprio tristissimo dipinto. Mi sentivo come quel tragico otto maggio, quando, su una collina, con una vecchia “500” dalle gomme lisce, fui raggiunto da quella terribile notizia, attraverso una radiolina che tenevo sul sedile accanto. E, come quel pomeriggio non riuscivo più a trovare la strada del ritorno, quella sera, mi sentivo perso, in mezzo al mare, senza barca e senza saper nuotare. Gilles era in me, nei miei istinti giovanili, era l’esempio del coraggio, dell’uomo ardimentoso ed incomparabile. Dell’essere umano che parlava per me, per quello che non avrei mai potuto dare e fare, per incapacità fisica e mentale. Era la verve che si scioglieva sugli sguardi, arricchendo di luminosità anche i colori più sbiaditi dell’intorno e del banale camminare. Nessuno dei tanti altri dello sport che seguivo fin dai tempi del “ciuccio” vissuto sul pollice destro, era riuscito ad imprimermi un tratto così intenso di gioventù e di sogno. Il campione che tanto avrei voluto presente con mio padre in vita, perché anche babbo, era uno coi motori nel sangue e…. chissà come avrei potuto vivere accanto a lui il tratto di Gilles.

L’amico non tardò a dirle che ero in trance…. e che forse era meglio troncare quella lunga catena di particolari sulla vita del campione, che il fratello le aveva raccontato. Ma l’ormai non più giovanissimo terzino, chiedeva quello stop anche per se stesso, per quei suoi occhi lucidi e quella smorfia di sofferenza che conoscevo da quando, sul campo di calcio, sopperiva alla sua mancanza di piedi buoni, mettendo tutto se stesso per non sfigurare. Lei non sentiva i suoi richiami ed i miei tristi voli, era troppo forte il suo bisogno di esternare quegli involontari aspetti di conoscenza, tanto fascinosi quanto angoscianti, per quel groviglio di partecipazione emotiva che accompagna i ricordi che vanno dal sole della vita, allo sconforto della tragedia. “Come sapete, tutto nacque ad Imola – continuò la nostra narratrice - in quella giornata che poteva essergli radiosa, ed invece s’allacciò al più terribile dei dolori che può subire un uomo sincero: il tradimento di un amico. La corsa non vedeva la partecipazione di molti team. Era la loro protesta per le squalifiche di Piquet e Rosberg, le cui monoposto erano state trovate sottopeso in Brasile. Costretti a zavorrare le macchine, decisero di non presentarsi a Imola. Giunsero così, alle prove, solo sette scuderie, per un totale di quattordici monoposto. Ferrari e Renault, erano nettamente le più forti. La tensione fra le “rosse” era forte, perché i problemi di regolamento e l’evoluzione del mezzo, avevano prodotto, nei tre G.P. precedenti, pochi punti…. e la gara del “Dino Ferrari” assumeva un’importanza vitale, per lo stesso campionato. E poi, come sapete, quello è da sempre l’autodromo di casa. Il pubblico, sarebbe come sempre accorso a fiumi e c’era bisogno di dargli una grossa soddisfazione, con una corsa degna, nonostante i pochi partenti. Gilles, che aveva girato in prova quasi un secondo e mezzo meglio di Didier, raccontò a mio fratello che la gara doveva essere particolare. Roberto Nasetto, aveva chiesto esplicitamente a lui, Didier, Alain e Renè, di fare un po’ di cinema, per divertire la gente. Li aveva convocati insieme, proprio perché capissero bene che non scherzava. Disse che era necessario, perché aldilà del pubblico, quello era un modo per rendere più credibile il mondo della Formula Uno, così tartassato dalla protesta dei team aspirati e inglesi in particolare. In sostanza, dovevano cercare di darsi battaglia, senza correre il rischio di uscire, perché c’era il fondato rischio che, al traguardo, potesse arrivare un numero di macchine inferiore a quello che va a punti. A Renè ed Alain, chiese se, a loro giudizio, i propulsori erano in grado di tenere per almeno tre quarti di gara. I due francesi risero, perché proprio non ne avevano un’idea. Allora Nasetto, si raccomandò di andare regolari, in modo che il quartetto stesse il più compatto possibile per il maggior numero di giri. Gilles, Alain e Renè accettarono sorridendo, perché avevano capito bene la situazione. Didier, invece, mostrò un certo dissenso, perché c’era in ballo in campionato mondiale e disse che ci doveva pensare. La cosa creò imbarazzo, ma Gilles strizzò l’occhio ai due francesi della Renault, facendo capire che, alla fine, si sarebbe adeguato all’evidenza. Era convinto dell’amicizia di Didier. E poi, i tre, non lo ritenevano alla loro altezza”. Lei si fermò, s’accese una sigaretta e guardò un punto lontano del mare, come se ci fosse un faro che irrorava di luce una notte già fonda. In realtà non c’era nulla, ma quella espressione mi svegliò un poco dallo stato di doloroso stallo, con cui avevo ascoltato, fin lì, il suo lungo raccontare. M’accesi anch’io una sigaretta, ed era veramente strano, per me, riscontrare, che in un simile stato non l’avessi ancora fatto.
[Immagine: a17b86a2-5eab-4c74-aa96-037b16c2cd9a.jpeg]
Trovai la forza di aggredire, con la curiosità, quel suo breve intervallo. “Okay, di quell’accordo ne avevo sentito parlare, ma si chiuse il tutto così?” “Gilles – riprese lei – raccontò a mio fratello che con Alain e Renè, prima della corsa, aveva parlato ancora e che gli avevano detto di star tranquillo, perché lui era il più forte e le loro macchine non avrebbero tenuto per tutta la gara. Poi gli chiesero se sapeva qualcosa di Didier e lui rispose che il silenzio, dimostrava la sua accettazione all’esigenza di far cinema, fino a quando la gara non fosse entrata nel vivo. In fondo, come i colleghi francesi avevano ben capito, non si trattava di stravolgere la gara, ma era solo un modo per dare al pubblico, quello spettacolo compromesso dal forfait di tanti team. La realtà però, era ben diversa, ma lui la seppe dopo: Didier aveva detto a Nosetto che per metà gara, andava bene la recita, ma poi ognuno per sé”. “Scusami, ma Gilles non ebbe occasione di parlare a Didier prima del via?” – intervenne l’amico. “No, era sicuro che avrebbe mantenuto i contenuti di quella recita, perché era nella logica, ed i primi giri della corsa poi, gli confermarono quella convinzione. A mio fratello disse che le Renault facevano da treno, ma non forzavano più di tanto e lui teneva bene quel ritmo, contrariamente a Didier. Quando, al sesto giro, Prost si trovò col motore arrosto, capì che per dare spettacolo doveva provare ad attaccare Renè. Era il modo migliore per interpretare il copione, ed entusiasmare il pubblico. Il ritmo non s’alzò di molto e lui sentiva che l’amico-avversario davanti, aveva ben capito che il suo era solo un dovere di recita. Si sorpassarono a vicenda, ma non erano staccate cattive. Ciononostante, l’andatura un po’ più elevata, aveva creato un buco con Didier, a dimostrazione delle sue difficoltà a tenere il passo. Se ricordate, ragazzi, le immagini in TV, confermano ciò che disse Gilles a mio fratello. Infatti, durante il tratto consumato di metà gara, il ritardo di Didier dal compagno, aveva anche toccato punte sui quattro secondi. Passato il giro di boa della corsa, al 44° giro, Renè, in quel momento in testa, mentre si preparava a parare l’attacco vero di Gilles, sul curvone che si faceva in quinta piena prima della Tosa, si ritrovò col motore cotto. Le due Ferrari erano così prime e seconde.” “E qui iniziò il fattaccio!” – l’interruppe di nuovo l’amico. “Già! Come Gilles confermò a mio fratello, l’aver visto il cartello “slow”, che era il segnale convenzionale di non forzare e mantenere le posizioni, gli fece capire di non lanciarsi a tutta, come se ad inseguirlo fosse un avversario. Moderò la velocità e questo, come ebbe a dire urlando, favorì il disegno che Didier aveva in animo. Quando, a soli sette giri dal termine fu sorpassato, era convinto che il compagno volesse mantenere la recita e si comportò di conseguenza, cercando però di salvaguardare il mezzo, in fondo s’era alle battute finali. In questo modo interpretò quei “passa e ripassa” che mandarono in visibilio il pubblico. Disse che non ci aveva messo l’anima nel superare nuovamente il compagno, ma poi, al penultimo giro, ebbe il sospetto che Didier potesse fare sul serio, perché lo passò con cattiveria, rischiando molto e toccandolo. A quel punto, pensò di verificarlo alla prima occasione utile, attraverso un contro-sorpasso più impegnato, per vedere che tipo di resistenza avesse opposto il compagno. Il tentativo riuscì così impeccabilmente e facilmente, da cancellare i sospetti di malafede che stavano sorgendo in lui verso Didier. S’era già all’ultimo giro e alla Piratello, a soli ottocento metri dalla bandiera a scacchi, fece la sua traiettoria normale, convinto che la finta battaglia fosse finita. Invece Didier lo ripassò”.
Al sentir quelle parole che mi venivano da una ragazza, ma che erano di Gilles, provai un profondo senso di rabbia. Accanto a me, in un limbo di sabbia vicino allo scoglio sul quale ero seduto, c’era un pezzo di legno. Lo presi come valvola di sfogo e lo spezzai come fosse un fuscello. Senza trattenermi, con una voce che non sapevo se rotta dall’emozione o dall’intensità viscerale che accompagna l’avversione, esclamai: “Una gran testa di minchia!” Ripresi fiato e aggiunsi: “Il tuo racconto dimostra quanto s’è visto quel giorno. Se Gilles avesse voluto umiliarlo, finita la recita con Arnoux, gli avrebbe dato un secondo al giro!” “Dici quello che lui stesso raccontò a mio fratello – riprese lei – Devi sapere, che in quelle poche centinaia di metri, prima del traguardo pensò di ripassarlo con un atteggiamento tipo ‘o la và o la spacca’, ma desistette pensando alla Ferrari, al Drake e accettò l’immeritato secondo posto. Sulla sua esplosione dopo il traguardo sapete tutto. A mio fratello disse che inseguì Nosetto e gli urlò che se avesse saputo che Didier non voleva fare cinema, da metà corsa in avanti, gli avrebbe dato davvero un secondo al giro, anche a costo di rimanere senza benzina.” “Ne sono convinto, bastava vedere la fatica che il giuda faceva per tenere le Renault.” – intervenne l’amico. “Ma queste cose, Gilles, quando le ha raccontate a tuo fratello.” – le chiesi, non senza una ritrovata curiosità. “Nei due viaggi in elicottero che fecero fra Montecarlo e Maranello, alcuni giorni dopo Imola e prima della tragedia di Zolder.” “Fatto sta, che Gilles, da quel pomeriggio imolese, non fu più lui.” – aggiunsi. “Esatto, in particolare nel secondo viaggio, cinque giorni prima del fatale G.P, del Belgio, Gilles si dimostrò un fiume in piena e raccontò a mio fratello tutto quello che stava vivendo all’interno della Ferrari, lasciandosi andare anche a dei giudizi sui singoli dello staff, nonché sul suo avvenire, come non aveva mai fatto. Era particolarmente alterato, quasi a presagire cosa gli sarebbe poi successo. Guidava l’elicottero più spericolato del solito, al punto che mio fratello, quando atterrarono, ebbe bisogno di riprendersi dalla spossatezza che aveva ereditato dalla paura di un incidente. Anche due giorni fa, m’ha detto che non ha mai avuto paura come in quella occasione.” “Bèh, come non credergli!” – l’interruppe l’amico. “Già – riprese lei – e per convincervi ancora di più, dovreste vedere il suo volto, mentre racconta le esibizioni e la loquacità di Gilles nell’ultimo incontro di dialogo. Ce l’aveva particolarmente con Piccinini, perché a suo giudizio stava parteggiando e non poco per Pironi. Diceva che lo sapevano anche tanti altri di questa sua simpatia. Si fidava dell’ingegner Forghieri, che considerava una persona onesta e capace, ma il clima in Ferrari non era più lo stesso. Ribadì che dopo il Belgio, dove l’obiettivo era quello di vincere due volte, uno perché quello era il suo dovere e l’altro per dare a Didier una sonora lezione, avrebbe voluto parlare con l’ingegner Ferrari per discutere il suo futuro, visto che a lui doveva tanto e lo vedeva come un padre. Confermò a mio fratello che le voci di una scuderia in Francia, tutta per lui, con una montagna di soldi provenienti dalla Williams, erano verissime, ma che lui se ne fregava del danaro e che non avrebbe mai abbandonato la Ferrari, se non glielo avesse chiesto, o praticamente fatto capire, il Drake.” “La scuderia, avente come capo tecnico Gerard Ducarouge?” – le chiesi. “Sì, proprio lui e con Arnoux o Tambay come compagno. Ma era un progetto che viveva su Gilles, ora non s’ha proprio idea di cosa si farà….. Comunque – riprese lei con gli occhi lucidi – a mio fratello disse altro e molto altro. Ritornò sulla tremenda giornata di Imola comparando quello che gli aveva fatto Didier, come l’esatto contrario di ciò che aveva fatto lui, per l’intera stagione ’79, quando prese per mano Jody e gli fece vincere un mondiale che avrebbe vinto Gilles, se fosse stato da solo in squadra. Disse che i ringraziamenti di quel compagno, non erano mai mancati, come del resto l’ammissione dello stesso Jody circa una sua inferiorità. Raccontò di quando a Monza, nella gara decisiva, avesse messo più volte il piede sul freno per non sorpassarlo o per non tamponarlo, ma che era giusto così, perché l’anno seguente, sarebbe stato lui l’eletto a vincere il mondiale. Invece, con la T5, un infortunio di macchina, non fu possibile e raccontò di quando Jody gli disse che era un ragazzo d’oro, semplicemente perché un top driver come lui, non poteva stare a marcire su una macchina così”.

“Già – intervenne l’amico – un aborto di monoposto, che solo Gilles riusciva a portare persino abbastanza avanti nella griglia, quando invece Scheckter faticava a qualificarsi e partiva nelle ultime due file”. “E’ vero - riprese lei – ma Gilles era unico, il migliore. Secondo mio fratello, il massimo del massimo possibile, ed un caro ragazzo, molto più denso di sentimenti di quanto non fosse presumibile guardando le sue imprese sulle piste. A mio fratello disse sempre che lo considerava un caro amico e che il suo Motorhome, per lui, era sempre aperto. Infatti, i loro incontri erano frequentissimi e non solo legati all’elicottero. Gli parlò della sua amicizia con Tambay e con lo stesso Jody e, proprio in nell’ultimo viaggio, gli disse che Joanne, Jacques e Melanie, se gli fosse capitato qualcosa, fortunatamente, avrebbero avuto qualcuno disposto ad aiutarli. Sembrava un presagio. D’altronde il nervosismo che lo accompagnava era davvero enorme.” “E a Zolder, tuo fratello non ebbe occasione di parlargli?” – le chiesi con la curiosità di uno che cerca di scansare l’arrivo del terribile. “No, o meglio si videro e si salutarono ovviamente, ma non andarono oltre. In fondo s’era alla gara, ed un Gran Premio, spesso inizia diversi giorni prima. Anche da quei pochi attimi comunque, mio fratello capì che Gilles, con una cupidigia che non gli aveva mai visto, pensava a mettere a punto la macchina, per fare ciò che gli aveva detto in elicottero. In testa, aveva soprattutto Didier, colui che lo aveva tradito davanti al pubblico che amava quanto se stesso. Credo che il fatale 8 maggio di Zolder, fosse un lungo giorno partito e scatenato il 25 aprile ad Imola. La monoposto lenta di Jochen Mass, altri non era che il segno d’un destino, forse ricercato dall’ansia di un uomo che era unico nella sua intensità di vivere i propri credi, ed i propri valori.”
S’era fatto tardissimo e le eventuali domande su quel pomeriggio di tragedia, erano inutili all’allungamento della conoscenza, in quanto già ampiamente incontrata sui giornali e sugli schermi della TV. E poi, sarebbe stata una sofferenza troppo grande, da aggiungere a quella che s’era creata con le parole di quella ragazza. Fu l’amico, a togliermi dall’impiccio di fermarla, per non sentire altro. Le disse che era già ora di andare a prendere la sua amica al “Lanternino”, una balera poco distante dal molo. Era il momento giusto per accomiatarmi e ritornare alla mia dimora. Mi preoccupava il viaggio, perché ero confuso, e pensavo troppo. Non avevo quella “500” che mi accompagnava nelle mie attività politiche, ma la mia Audi 80, con tanto di radiomangianastri inserito. Cercai nella musica un modo per aiutarmi a non ricordare, l’accesi e spinsi il nastro sul collegamento. Non fu una bella scelta, perché s’inserì “The dark side of the moon” dei Pink Floyd, proprio su uno dei brani più trasportanti, “Us and Them”. L’armonia di quella musica, mi spinse ancor più al ricordo troppo fresco di quella tragica giornata di Zolder. Mi fermai nell’area di una stazione di servizio, per evitare il peggio. Ripresi il viaggio dopo una buona mezzora, con l’auto che pareva guidare per me. A poco da casa, ebbi la “bella idea” di cambiare nastro e senza guardare cos’era finito fra le mie mani, lo collegai: era “Epitaph”, un brano dei King Crimson, inserito nella loro opera prima: “In the court of the Crimson King”. Anche quello, e non solo per il titolo, era una spinta alla malinconia e ai tristi ricordi. Giunsi a casa grazie a quell’Audi. Quella notte non chiusi occhio.
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La sera seguente, come fosse tutto pilotato da una regia che mi sfuggiva, andai a svolgere una delle tante inutili riunioni di quel mio lasso di vita. La sede geografica era un paesino di montagna: un lungo borgo diviso fra fiume, strada e roccia. Lì, proprio lì, c’era un Club dedicato a Gilles che, guarda caso, ospitava il salone dove si doveva tenere l’incontro. Era caldo e c’erano compagni più giovani del solito. Stravolsi l’inutilità, con un atto dovuto seguendo l’istinto: “Compagni e amici, non ho voglia di parlare delle contorsioni di Craxi o della tiritera di De Mita. Perciò, in onore di un grande, veramente grande, e del luogo che voi avete così appassionatamente intitolato, stasera parleremo di un leggendario: Gilles Villeneuve!” E fu così.

Maurizio Ricci (Morris)
 
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#2
.......
 
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#3
A due giorni dal 40° anniversario della morte, Rai 2 propone, oggi 10 maggio alle 21.25, un documentario su Gilles Villeneuve.
Adesso ho capito perchè domenica mattina mi era stata fatta la richiesta di riproporre qusto racconto. Non sapevo proprio di questo documentario. Comunque sia, stasera non riuscirò a trattenere le lacrime.
 
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#4
Sono vecchio, ma stasera ho provato sensazioni di gioventù impensabili ed ho vissuto un'altra pagina di quell'immanente convinzione che lo sport appartenga al mondo dell'arte. Ho ovviamente pianto come sempre mi capita quando parlo o vedo qualcosa dove il protaginista è Gilles Villeneuve: Gilles e Marco Pantani più simili di quanto si pensi, due totem della mia vita che sono fiero di aver potuto vedere e conoscere nel pieno delle mie facoltà. Due immortali amati dalla gente come nessuno. Ed anche da qui, ben si capisce, che la grandezza, per la gente, non viene dal curriculum, ma da come l'artista narra o dipenge le sue pagine e dalla profondità dei suoi messaggi.
Gilles, oscurò un dio degli italiani come Ferrari, Pantani, oscurò un altro dio come il calcio. Non aggiungo altro e non faccio confronti coi colleghi di questi due, perchè significherebbe sfregiarli.
Complimenti all'autore del documentario su Gilles, anche se su taluni aspetti, è stato un tantino politically correct.
 
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#5
Se un sondaggio chiedesse di indicare il più Grande pilota Ferrari degli ultimi 50 anni credo che sarebbero molti di più a nominare Gilles di quanti non nominino Schumacher
 
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[+] A 1 utente piace il post di jwill
#6
Tra gli over 50 sicuramente
Io avevo sette anni..quando morì
Sportivamente ho avuto quattro miti (gilles , tomba , pantani e ronaldo)
Gilles è diverso perché ero piccolissimo
Quindi l ho visto poco nel 1982 e più dagli speciali in suo onore
Per un bimbo (anzi due perché mio fratello gemello aveva la stessa passione) è difficile capire che il suo campione non correrà mai più perché è morto..
Forse la sua morte ha aumentato ancor di più la sua leggenda
La ferrari per me è sempre la numero 27
Schumacher ha portato tante vittorie e titoli..ma solo gilles era il mito
Forse perché era un'altra formula 1
Meno elettronica meno simulatori
Più personaggi
Adesso seguo un gp ogni tanto..prima tutti
Quanti piloti attuali vengono dai campionati di motoslitte?

Gilles adesso non piacerebbe
Perché si tifa solo chi vince , non chi va oltre
Le sue 6 vittorie valgono più di tutte quelle di hamilton per me

Non ricordo se capodistria o telepiu mandava spesso un video della gare di Digione con l lotta memorabile tra arnoux e gilles..
Con sottofondo la canzone di Lionel ritchie running with the night.. bellissima

Morris come sempre è un piacere leggerti. Sei un grande narratore di sport
 
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#7
Grazie Winter!
 
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