22-02-2024, 09:36 AM
A coloro che osano sui monti
pedalando linguaggi
che riconoscono
nelle fatiche di tutti
i sottili sentieri
che chiamiamo sensazioni
fino a far volare il corpo
sul paesaggio della mente.
Morris
Avevo nove anni, quando il Galibier divenne parte integrante della mia passione ciclistica. Lo conoscevo già da almeno tre, perché il ciclismo era un penate di famiglia e le mie antenne allora sveglie come mai nel resto della mia vita, lo avevano abbinato al percorso dei miei giochi coi coperchini: nella mia terra i famosi e popolari “quarcì”. Era però, una conoscenza generica, al pari di altre montagne, mi mancava quel “di più” che faceva scattare in me la voglia di ricerca, sia a mo’ di asfissianti domande al mio intorno e sia sui giornali o quei libri che non mi erano poi così lontani, nonostante mi trovassi, all’epoca, fra la terza e la quarta elementare.
Il Tour de France “dell’elevazione” fu dunque quello del 1964, ed il commento radiofonico e su carta dell’impresa di Federico Martin detto e conosciuto da tutti come “Bahamontes”, il fattore trasportante, l’alone leggendario che attorniava il Galibier. Una montagna che mi si presentò non normale, una che dovevo mettere sul trono dei miei percorsi per i “quarcì”; una che un bambino come me, doveva iniziare a vivere come religione.
Trentaquattro anni dopo, col ciclismo non più al ruolo di sport principale d’Europa, anche nella sua massima e mondialmente stravista espressione del Tour de France, Marco Pantani, un ragazzo col mio dialetto e che mi era familiare, scolpì su quella montagna il segno della sua storica grandezza, ed il Galibier tornò a ruggire per tutti, come fosse Wembley o il Maracanà. Ma quel ragazzo, l’unico capace di portare al ciclismo folle oceaniche e non prevedibili, fu ammazzato presto, ed anche i templi o i totem della leggenda del pedale, tornarono nei ranghi di un alone, certo sempre grande ed esteso, ma altrettanto sempre interno allo sport della bicicletta. Fama e popolarità sì, ma niente a che vedere con quel patrimonio di tutti che poteva essere.
Resta però un dato su cui ognuno deve e dovrà fare i conti: su quella montagna che per almeno otto mesi l’anno, impedisce o minaccia attraverso la neve siamese, il passaggio sicuro dello strumento spinto a motore umano, si volgono negli altri quattro, migrazioni con numeri da far gridare all’epocale. E non è certo una spinta sciistica a portare lungo traiettorie, pendenze e il fascinoso paesaggio del Galibier, tutte quelle persone d’ogni parte del mondo. Una religione che permane, un segno che impreziosisce ogni profeta, come lo furono coloro che passarono primi, in bicicletta, su quella cima. Veri e propri angeli custodi d’un luogo che anche percorrendolo in automobile, crea fremiti ed incensi. Qualcosa di più di una semplice “suggestione”, come la definiscono coloro che possiedono un cuore di pietra.
…Il Col du Galibier
scorre mistico e risuona
quando gli sei lontano,
t’illumina quando sei da lui
senza perdere frammenti
di fascino, sogno e significati,
perché te li incide
senza dirti come ha fatto…
Maurizio Ricci (Morris)
Una storia lunga oltre cento anni………
Una storia che ha un padre preciso, anche se, probabilmente, sarebbe nata lo stesso. Un romanzo, potremmo dire, che riconduce la sua genesi su un personaggio che ha velocizzato il passaggio del velocipede alla bici e che rappresenta una pietra miliare del ciclismo e del suo tempio maggiore, perlomeno per chi, oltre un secolo dopo, si pone di fronte a questo sport, con le valorizzazioni che vogliono i numeri: il Tour de France.
La figura in questione è quella di Henri Desgrange, un francese, parigino per la precisione, tanto geniale quanto intinto di un sottile senso di superiorità, pur non mancando mai di essere prudente. Un campione sulla bicicletta nato anomalo, in quanto divenuto tale non per la ricerca di un riscatto, ma come frutto di una passione che intendeva come un serio fatto di vita e per la vita. Henri aveva un gemello, Roger, che era di lui l’opposto, un pio-prete senza veste talare, ed incapace di rischiare anche il minimo, uno insomma, che appariva destinato all’anonimato più perpetuo. La loro famiglia, non ricchissima, ma sufficientemente agiata per vivere i tratti migliori della borghesia parigina, aveva lasciato ai fratelli la strada per scegliere senza cadere, scottarsi o raggelarsi, e mentre Roger viveva il tutto nella versione più cupa dell’ignavia, Henri rispondeva con l’effervescenza del carattere, come megafono di una grande capacità di osservare e progettare. Studiò e stava divenendo avvocato, ma prima che le leggi, guardava lo spirito che le produceva, nato nell’ogni giorno dalle metamorfosi sociali che la ricerca scientifica e le risposte tecnologiche stavano presentando. Fu assunto in un importante ufficio del suo ramo di studi, ma vi restò poco: c’era qualcosa di meglio da fare. Già, si fece licenziare perché voleva correre su un mezzo che aveva la pretesa di sostituire in tutto il velocipede e divenire a portata di tanti: la bicicletta. Era il 1891, ed Henri, nato a Parigi il 31 gennaio 1865, aveva già 26 anni. Era da tempo che all’attività intellettuale, accostava le gare, soprattutto su una variante agonistica la cui nascita e la cui morte starà all’interno della Belle Èpque: quella dei tricicli. Lì, si era fregiato del titolo di campione, ma non bastava, lui voleva provarsi meglio su quel mezzo che vedeva come epocale e, proprio nel 1891, all’indomani del licenziamento, si iscrisse ad una corsa che voleva diventare famosa (e lo divenne), che partiva da Bordeaux ed arrivava a Parigi, la sua città. Uno sforzo immane per un neofita, ma lui la finì, non fra i primi, ma la finì. Sempre più vicino e scrutatore del nuovo strumento a pedali, divenne così un assiduo praticante di quei velodromi, allora chiamati tondini, che erano il teatro massimo, denso di folle, del nuovo mezzo.
Qui, si scoprì scevro agli scatti, ma in possesso di una progressione da lasciare a bocca aperta l’osservatorio del tempo. Essendo resistente, provò a segnare la sua epoca con un qualcosa che potesse sì inebriare l’attualità, ma che restasse negli anni. Cercò dunque quei record che sono da sempre un modo per creare effetti superiori al traguardo, portandosi presso gli elementi che fanno critica e si leggono naturali alle disamine.
Henri Desgrange tentò, e vi riuscì. L’11 maggio 1893, nella “sua” Parigi, radunò gran pubblico sulla pista in cemento di Buffalo (chiamata così perché sita su una zona che era stata la dimora parigina della troupe di William Cody, alias Buffalo Bill), e lì seppe dare spettacolo, stabilendo i primati mondiali del “Km con partenza da fermo”, in 1’37”; dei 10 km, in 16’54” e, soprattutto, dell’Ora, percorrendo la distanza di 35325 metri. Due mesi e mezzo più tardi, allungò il suo palmares di record, ai 100 km, percorsi in 4 ore, 4 minuti e 7 secondi. Era nella storia, ma alla storia non vi passerà per questo. Divenuto famoso e affermato, diminuì l’intensità agonistica drasticamente, fino all’abbandono pochi mesi dopo, ma non lasciò lo sport ed il movimento fisico che saranno suoi compagni, sempre. Guardò con occhi ancor più acuti la “Belle Epoque” che gli scorreva davanti, raccolse le idee, l’osservazione e le esperienze, e cominciò a scrivere.
Nel 1894 pubblicò un libro “La tete et les jambes”: un romanzo che rappresentava un inno alla bicicletta e, di fatto, insegnava al lettore anche il mestiere del corridore sul nuovo mezzo, l’unico spinto a motore umano. Cominciò a pubblicare scritti di varia natura con assiduità sui giornali e ad accostare a tutto questo, anche l’organizzazione di eventi. Nel 1897 divenne direttore del Velodromo del Parco dei Principi, l’anno successivo, scrisse un altro libro, dal titolo “Alphonse Marcaux” e, nel 1900, fu chiamato dagli industriali Albert De Dion e Adolphe Clément, a dirigere la loro nuovissima rivista, l’Auto-Velò: un giornale sportivo che aveva la chiara ambizione di scalzare dal ruolo di leader, “Le Velò”, diretto da quel Pierre Giffard che, nel 1891, aveva lanciato la Parigi-Brest-Parigi e che organizzava pure la Bordeaux-Parigi.
Desgrange, lanciò la nuova testata su buoni livelli, e capì che la proposta di eventi ciclistici era determinante per il successo del giornale stesso, come d’altronde insegnava la testata concorrente. Ed in questa direzione si mosse, contribuendo, nel 1903, all’elevazione di quello che sarà un monumento del pedale su pista e di altri sport: il Velodrome d’Iver, sito in via Nelaton, vicino alla Torre Eiffel, a Parigi. Si trattava di un impianto coperto che garantiva attività sportive tutto l’anno. Ma la svolta nella vita di Henri, non fu nemmeno quella. L’anno però, era quello giusto.
All’inizio del 1903, le vendite de l’Auto-Velò raggiungevano le 33000 copie, ma non erano ancora sufficienti per gratificare uno come Henri, in quanto il giornale di Giffard, era diffuso quasi tre volte tanto: 88000. Per battere la concorrenza, Desgrange cercò idee, coinvolgendo gli uomini della testata, ed una sera raccolse l’indicazione del suo capo redattore, Geo Lefevre, ovvero: l’organizzazione più sensazionale, in grado di richiamare interesse e conseguenti vendite, non poteva che partire da una nuova, più completa ed affascinante prova in bicicletta. Più massacrante dei 1200 chilometri della Parigi-Brest-Parigi, più corposa per itinerari, ed in grado di coinvolgere più territori. In altre parole si doveva organizzare il Tour de France sullo strumento chiave della “Belle Èpoque”: la bicicletta.
Henri coinvolse tutto il coinvolgibile, attraverso gli stessi imprenditori proprietari della testata e l’impresa economica, che stava alla base della consorella organizzativa, si compì: il primo Tour, venne alla luce proprio nel 1903 e fu un successo.
La strada era dunque spianata, ma restava intatto il bisogno di arricchire di interessi la morfologia della corsa, per farne compiutamente un evento di livello mondiale. Ed in questa direzione si mosse ancora una volta con grande acume. Dopo aver inserito gradatamente montagne di grandi difficoltà sul percorso del Tour de France, l’astuto Desgrange, si convinse che nulla era impossibile ai corridori ciclisti, anche se aveva dovuto constatare quanto fossero pochissimi coloro che riuscivano a raggiungere le vette, senza scendere dal mezzo a pedali. Ma non poteva fermarsi, di fronte a questi che considerava solo dettagli di resistenza, sul campo di un vincente percorso verso quel colossale, che sapeva colpire la fantasia degli sportivi con un’intensità via via più eccezionale. Le fatiche sempre maggiori mandavano in bestia i corridori, ma lui incassava i loro improperi e arricchiva di premi e danari i frutti delle loro abnegazioni: il Tour de France, stava diventando la corsa più famosa ed importante del mondo, ed era già la più ricca. Negli anni, Desgrange inserì sul tracciato della grande corsa francese, fra le altre cime, le asperità alpine del Col Bayard (1905), la Cote de Laffrey (1905) e, soprattutto, il Col de Porte (1907); indi il Col de la Republique (1903) per quanto riguarda il “Massiccio Centrale”, il Col du Cerdon (1907) della catena del Giura, nonché il celeberrimo Ballon d’Alsace (1905), vetta dei Volgi in Alsazia. La svolta decisamente più montagnosa, con l’edizione del 1910, quando “sposò” quasi per intero le principali vette dei Pirenei, in ordine di percorrenza, il Peyresourde, l’Aspin, ed i difficilissimi Tourmalet e l’Aubisque. Ma serviva ancora qualcosa di grosso e d’impervio, soprattutto fra le Alpi.
Lì c’era una vetta che stuzzicava giorno e notte l’interesse di Desgrange. Quel colle che avrebbe fatto la differenza, arricchendo il Tour di una variabile importante sul complessivo terreno della leggenda da costruire. Qualche anno dopo, “Patron” Henri, rilasciò un’intervista dove dichiarava, a proposito di quei primi Tour de France, ed in particolare per l’edizione del 1910, quella dell’inserimento pirenaico: “Quei poveri corridori non avevano tutti i torti di protestare. Ma senza quelle innovazioni rivoluzionarie, il Tour non sarebbe progredito e oggi non sarebbe quello che è. Mi hanno insultato, ma poi furono gli stessi corridori che riconobbero l’utilità di correre sulle grandi montagne per la propaganda dello sport ciclistico e mi resero giustizia, tanto che nessuno fiatò, nel 1911, quando spinsi il Tour sul terribile Galibier, a oltre 2500 metri di altezza”.
Ed eccola qua, la cima-passo che era stata per tanto tempo nelle orbite di Desgrange. S’elevava fra la neve che anche d’estate a quella altezza si poteva trovare, ed era difficile, a tratti superba forse anche troppo per i corridori, ma era quello che Henri cercava: il suo sogno.
Nel 1911 nasceva così il rapporto fra il Col du Galibier e il Tour de France, una leggenda nella leggenda. Su quel passo si elevò, tanti anni dopo, un monumento a Desgrange: fu una scelta giusta, legittima e, sicuramente, tanto apprezzata dal destinatario di quella ermeneutica. Il fondatore del Tour, amava il Galibier, era la sua montagna preferita.
Il Col du Galibier e il Tour de France
Il Col du Galibier, dunque, arrivò al Tour de France come lo spettro accettato dai corridori e non mancò mai in tutti gli anni di presenza sul tracciato, di lasciare un segno, per la sua imponenza, per le fatiche che richiedeva e per quel fascino particolare che, con lo scorrere dei lustri, non è mai sceso.
Una montagna rispettata, un totem del Tour.
La sua storia nella celebre corsa e nel ciclismo più in generale cominciò, come detto, nel 1911, quando gli allora “pionieri” di questo sport, l’affrontarono con biciclette pesanti 15 chili abbondanti, senza cambio e con un sistema frenante azionato sulla sola ruota anteriore. La carreggiata del passo, non era altri che una mulattiera solo un poco più larga, come si può ben vedere dalla foto precedente, scattata sul Galibier, nell’edizione del 1913.
I primi in assoluto a transitare sulla sua cima furono nell’ordine Emile Georget, Paul Duboc e Gustave Garrigou, che la leggenda vuole come gli unici a non scendere di bicicletta per proseguire a piedi fino alla cima.
Da allora, il Col du Galibier è stato percorso dalle tappe del Tour de France per 62 volte. In 20 occasioni, colui che passò primo sulla sua cima, vinse poi anche la tappa. Potevano essere 63, perché il grande colle alpino, era presente nel tracciato dell’edizione del 1996, ma non fu poi scalato a causa delle condizioni atmosferiche proibitive.
L’unica impresa sulla quale il Galibier ha deciso direttamente le sorti del Tour de France, è stata quella di Marco Pantani, nel 1998. In un giorno da lupi, per il freddo e la pioggia che sui 2400 metri di quota divenne nevischio, a circa cinque chilometri dalla cima, con in fuga un drappello di buoni corridori, il grande campione di Cesenatico, scattò dal gruppo degli uomini di classifica e, per loro, non restò altro che vederlo sparire all’orizzonte. Si visse la leggenda di uno dei più grandi mai saliti su una bicicletta, sulla leggenda del Galibier. Pantani volò sulle pendenze di quella nobiltà, raggiunse e staccò i fuggitivi, li aspettò nella discesa che portava al Lautaret e li staccò nuovamente, con una ascesa portentosa a Les Deux Alpes, dove era posto l’arrivo. Ipotecò il Tour con quello scatto, là dove il Galibier ruggiva la sua mitologia.
L'unica volta in cui il Tour chiuse la tappa direttamente sulla cima del Galibier fu nel 2011, anno del Centenario, nel quale "il Gigante" fu scalato due volte: la prima con conclusione e la seconda con passaggio interno tappa. A passare primo sulla mitica soglia, fu in ambedue le occasioni, il lussemburghese Andy Schleck.
2011 - L'arrivo vittorioso e solitario di Andy Schleck
Maurizio Ricci detto Morris
- continua -
pedalando linguaggi
che riconoscono
nelle fatiche di tutti
i sottili sentieri
che chiamiamo sensazioni
fino a far volare il corpo
sul paesaggio della mente.
Morris
Avevo nove anni, quando il Galibier divenne parte integrante della mia passione ciclistica. Lo conoscevo già da almeno tre, perché il ciclismo era un penate di famiglia e le mie antenne allora sveglie come mai nel resto della mia vita, lo avevano abbinato al percorso dei miei giochi coi coperchini: nella mia terra i famosi e popolari “quarcì”. Era però, una conoscenza generica, al pari di altre montagne, mi mancava quel “di più” che faceva scattare in me la voglia di ricerca, sia a mo’ di asfissianti domande al mio intorno e sia sui giornali o quei libri che non mi erano poi così lontani, nonostante mi trovassi, all’epoca, fra la terza e la quarta elementare.
Il Tour de France “dell’elevazione” fu dunque quello del 1964, ed il commento radiofonico e su carta dell’impresa di Federico Martin detto e conosciuto da tutti come “Bahamontes”, il fattore trasportante, l’alone leggendario che attorniava il Galibier. Una montagna che mi si presentò non normale, una che dovevo mettere sul trono dei miei percorsi per i “quarcì”; una che un bambino come me, doveva iniziare a vivere come religione.
Trentaquattro anni dopo, col ciclismo non più al ruolo di sport principale d’Europa, anche nella sua massima e mondialmente stravista espressione del Tour de France, Marco Pantani, un ragazzo col mio dialetto e che mi era familiare, scolpì su quella montagna il segno della sua storica grandezza, ed il Galibier tornò a ruggire per tutti, come fosse Wembley o il Maracanà. Ma quel ragazzo, l’unico capace di portare al ciclismo folle oceaniche e non prevedibili, fu ammazzato presto, ed anche i templi o i totem della leggenda del pedale, tornarono nei ranghi di un alone, certo sempre grande ed esteso, ma altrettanto sempre interno allo sport della bicicletta. Fama e popolarità sì, ma niente a che vedere con quel patrimonio di tutti che poteva essere.
Resta però un dato su cui ognuno deve e dovrà fare i conti: su quella montagna che per almeno otto mesi l’anno, impedisce o minaccia attraverso la neve siamese, il passaggio sicuro dello strumento spinto a motore umano, si volgono negli altri quattro, migrazioni con numeri da far gridare all’epocale. E non è certo una spinta sciistica a portare lungo traiettorie, pendenze e il fascinoso paesaggio del Galibier, tutte quelle persone d’ogni parte del mondo. Una religione che permane, un segno che impreziosisce ogni profeta, come lo furono coloro che passarono primi, in bicicletta, su quella cima. Veri e propri angeli custodi d’un luogo che anche percorrendolo in automobile, crea fremiti ed incensi. Qualcosa di più di una semplice “suggestione”, come la definiscono coloro che possiedono un cuore di pietra.
…Il Col du Galibier
scorre mistico e risuona
quando gli sei lontano,
t’illumina quando sei da lui
senza perdere frammenti
di fascino, sogno e significati,
perché te li incide
senza dirti come ha fatto…
Maurizio Ricci (Morris)
Una storia lunga oltre cento anni………
Una storia che ha un padre preciso, anche se, probabilmente, sarebbe nata lo stesso. Un romanzo, potremmo dire, che riconduce la sua genesi su un personaggio che ha velocizzato il passaggio del velocipede alla bici e che rappresenta una pietra miliare del ciclismo e del suo tempio maggiore, perlomeno per chi, oltre un secolo dopo, si pone di fronte a questo sport, con le valorizzazioni che vogliono i numeri: il Tour de France.
La figura in questione è quella di Henri Desgrange, un francese, parigino per la precisione, tanto geniale quanto intinto di un sottile senso di superiorità, pur non mancando mai di essere prudente. Un campione sulla bicicletta nato anomalo, in quanto divenuto tale non per la ricerca di un riscatto, ma come frutto di una passione che intendeva come un serio fatto di vita e per la vita. Henri aveva un gemello, Roger, che era di lui l’opposto, un pio-prete senza veste talare, ed incapace di rischiare anche il minimo, uno insomma, che appariva destinato all’anonimato più perpetuo. La loro famiglia, non ricchissima, ma sufficientemente agiata per vivere i tratti migliori della borghesia parigina, aveva lasciato ai fratelli la strada per scegliere senza cadere, scottarsi o raggelarsi, e mentre Roger viveva il tutto nella versione più cupa dell’ignavia, Henri rispondeva con l’effervescenza del carattere, come megafono di una grande capacità di osservare e progettare. Studiò e stava divenendo avvocato, ma prima che le leggi, guardava lo spirito che le produceva, nato nell’ogni giorno dalle metamorfosi sociali che la ricerca scientifica e le risposte tecnologiche stavano presentando. Fu assunto in un importante ufficio del suo ramo di studi, ma vi restò poco: c’era qualcosa di meglio da fare. Già, si fece licenziare perché voleva correre su un mezzo che aveva la pretesa di sostituire in tutto il velocipede e divenire a portata di tanti: la bicicletta. Era il 1891, ed Henri, nato a Parigi il 31 gennaio 1865, aveva già 26 anni. Era da tempo che all’attività intellettuale, accostava le gare, soprattutto su una variante agonistica la cui nascita e la cui morte starà all’interno della Belle Èpque: quella dei tricicli. Lì, si era fregiato del titolo di campione, ma non bastava, lui voleva provarsi meglio su quel mezzo che vedeva come epocale e, proprio nel 1891, all’indomani del licenziamento, si iscrisse ad una corsa che voleva diventare famosa (e lo divenne), che partiva da Bordeaux ed arrivava a Parigi, la sua città. Uno sforzo immane per un neofita, ma lui la finì, non fra i primi, ma la finì. Sempre più vicino e scrutatore del nuovo strumento a pedali, divenne così un assiduo praticante di quei velodromi, allora chiamati tondini, che erano il teatro massimo, denso di folle, del nuovo mezzo.
Qui, si scoprì scevro agli scatti, ma in possesso di una progressione da lasciare a bocca aperta l’osservatorio del tempo. Essendo resistente, provò a segnare la sua epoca con un qualcosa che potesse sì inebriare l’attualità, ma che restasse negli anni. Cercò dunque quei record che sono da sempre un modo per creare effetti superiori al traguardo, portandosi presso gli elementi che fanno critica e si leggono naturali alle disamine.
Henri Desgrange tentò, e vi riuscì. L’11 maggio 1893, nella “sua” Parigi, radunò gran pubblico sulla pista in cemento di Buffalo (chiamata così perché sita su una zona che era stata la dimora parigina della troupe di William Cody, alias Buffalo Bill), e lì seppe dare spettacolo, stabilendo i primati mondiali del “Km con partenza da fermo”, in 1’37”; dei 10 km, in 16’54” e, soprattutto, dell’Ora, percorrendo la distanza di 35325 metri. Due mesi e mezzo più tardi, allungò il suo palmares di record, ai 100 km, percorsi in 4 ore, 4 minuti e 7 secondi. Era nella storia, ma alla storia non vi passerà per questo. Divenuto famoso e affermato, diminuì l’intensità agonistica drasticamente, fino all’abbandono pochi mesi dopo, ma non lasciò lo sport ed il movimento fisico che saranno suoi compagni, sempre. Guardò con occhi ancor più acuti la “Belle Epoque” che gli scorreva davanti, raccolse le idee, l’osservazione e le esperienze, e cominciò a scrivere.
Nel 1894 pubblicò un libro “La tete et les jambes”: un romanzo che rappresentava un inno alla bicicletta e, di fatto, insegnava al lettore anche il mestiere del corridore sul nuovo mezzo, l’unico spinto a motore umano. Cominciò a pubblicare scritti di varia natura con assiduità sui giornali e ad accostare a tutto questo, anche l’organizzazione di eventi. Nel 1897 divenne direttore del Velodromo del Parco dei Principi, l’anno successivo, scrisse un altro libro, dal titolo “Alphonse Marcaux” e, nel 1900, fu chiamato dagli industriali Albert De Dion e Adolphe Clément, a dirigere la loro nuovissima rivista, l’Auto-Velò: un giornale sportivo che aveva la chiara ambizione di scalzare dal ruolo di leader, “Le Velò”, diretto da quel Pierre Giffard che, nel 1891, aveva lanciato la Parigi-Brest-Parigi e che organizzava pure la Bordeaux-Parigi.
Desgrange, lanciò la nuova testata su buoni livelli, e capì che la proposta di eventi ciclistici era determinante per il successo del giornale stesso, come d’altronde insegnava la testata concorrente. Ed in questa direzione si mosse, contribuendo, nel 1903, all’elevazione di quello che sarà un monumento del pedale su pista e di altri sport: il Velodrome d’Iver, sito in via Nelaton, vicino alla Torre Eiffel, a Parigi. Si trattava di un impianto coperto che garantiva attività sportive tutto l’anno. Ma la svolta nella vita di Henri, non fu nemmeno quella. L’anno però, era quello giusto.
All’inizio del 1903, le vendite de l’Auto-Velò raggiungevano le 33000 copie, ma non erano ancora sufficienti per gratificare uno come Henri, in quanto il giornale di Giffard, era diffuso quasi tre volte tanto: 88000. Per battere la concorrenza, Desgrange cercò idee, coinvolgendo gli uomini della testata, ed una sera raccolse l’indicazione del suo capo redattore, Geo Lefevre, ovvero: l’organizzazione più sensazionale, in grado di richiamare interesse e conseguenti vendite, non poteva che partire da una nuova, più completa ed affascinante prova in bicicletta. Più massacrante dei 1200 chilometri della Parigi-Brest-Parigi, più corposa per itinerari, ed in grado di coinvolgere più territori. In altre parole si doveva organizzare il Tour de France sullo strumento chiave della “Belle Èpoque”: la bicicletta.
Henri coinvolse tutto il coinvolgibile, attraverso gli stessi imprenditori proprietari della testata e l’impresa economica, che stava alla base della consorella organizzativa, si compì: il primo Tour, venne alla luce proprio nel 1903 e fu un successo.
La strada era dunque spianata, ma restava intatto il bisogno di arricchire di interessi la morfologia della corsa, per farne compiutamente un evento di livello mondiale. Ed in questa direzione si mosse ancora una volta con grande acume. Dopo aver inserito gradatamente montagne di grandi difficoltà sul percorso del Tour de France, l’astuto Desgrange, si convinse che nulla era impossibile ai corridori ciclisti, anche se aveva dovuto constatare quanto fossero pochissimi coloro che riuscivano a raggiungere le vette, senza scendere dal mezzo a pedali. Ma non poteva fermarsi, di fronte a questi che considerava solo dettagli di resistenza, sul campo di un vincente percorso verso quel colossale, che sapeva colpire la fantasia degli sportivi con un’intensità via via più eccezionale. Le fatiche sempre maggiori mandavano in bestia i corridori, ma lui incassava i loro improperi e arricchiva di premi e danari i frutti delle loro abnegazioni: il Tour de France, stava diventando la corsa più famosa ed importante del mondo, ed era già la più ricca. Negli anni, Desgrange inserì sul tracciato della grande corsa francese, fra le altre cime, le asperità alpine del Col Bayard (1905), la Cote de Laffrey (1905) e, soprattutto, il Col de Porte (1907); indi il Col de la Republique (1903) per quanto riguarda il “Massiccio Centrale”, il Col du Cerdon (1907) della catena del Giura, nonché il celeberrimo Ballon d’Alsace (1905), vetta dei Volgi in Alsazia. La svolta decisamente più montagnosa, con l’edizione del 1910, quando “sposò” quasi per intero le principali vette dei Pirenei, in ordine di percorrenza, il Peyresourde, l’Aspin, ed i difficilissimi Tourmalet e l’Aubisque. Ma serviva ancora qualcosa di grosso e d’impervio, soprattutto fra le Alpi.
Lì c’era una vetta che stuzzicava giorno e notte l’interesse di Desgrange. Quel colle che avrebbe fatto la differenza, arricchendo il Tour di una variabile importante sul complessivo terreno della leggenda da costruire. Qualche anno dopo, “Patron” Henri, rilasciò un’intervista dove dichiarava, a proposito di quei primi Tour de France, ed in particolare per l’edizione del 1910, quella dell’inserimento pirenaico: “Quei poveri corridori non avevano tutti i torti di protestare. Ma senza quelle innovazioni rivoluzionarie, il Tour non sarebbe progredito e oggi non sarebbe quello che è. Mi hanno insultato, ma poi furono gli stessi corridori che riconobbero l’utilità di correre sulle grandi montagne per la propaganda dello sport ciclistico e mi resero giustizia, tanto che nessuno fiatò, nel 1911, quando spinsi il Tour sul terribile Galibier, a oltre 2500 metri di altezza”.
Ed eccola qua, la cima-passo che era stata per tanto tempo nelle orbite di Desgrange. S’elevava fra la neve che anche d’estate a quella altezza si poteva trovare, ed era difficile, a tratti superba forse anche troppo per i corridori, ma era quello che Henri cercava: il suo sogno.
Nel 1911 nasceva così il rapporto fra il Col du Galibier e il Tour de France, una leggenda nella leggenda. Su quel passo si elevò, tanti anni dopo, un monumento a Desgrange: fu una scelta giusta, legittima e, sicuramente, tanto apprezzata dal destinatario di quella ermeneutica. Il fondatore del Tour, amava il Galibier, era la sua montagna preferita.
Il Col du Galibier e il Tour de France
Il Col du Galibier, dunque, arrivò al Tour de France come lo spettro accettato dai corridori e non mancò mai in tutti gli anni di presenza sul tracciato, di lasciare un segno, per la sua imponenza, per le fatiche che richiedeva e per quel fascino particolare che, con lo scorrere dei lustri, non è mai sceso.
Una montagna rispettata, un totem del Tour.
La sua storia nella celebre corsa e nel ciclismo più in generale cominciò, come detto, nel 1911, quando gli allora “pionieri” di questo sport, l’affrontarono con biciclette pesanti 15 chili abbondanti, senza cambio e con un sistema frenante azionato sulla sola ruota anteriore. La carreggiata del passo, non era altri che una mulattiera solo un poco più larga, come si può ben vedere dalla foto precedente, scattata sul Galibier, nell’edizione del 1913.
I primi in assoluto a transitare sulla sua cima furono nell’ordine Emile Georget, Paul Duboc e Gustave Garrigou, che la leggenda vuole come gli unici a non scendere di bicicletta per proseguire a piedi fino alla cima.
Da allora, il Col du Galibier è stato percorso dalle tappe del Tour de France per 62 volte. In 20 occasioni, colui che passò primo sulla sua cima, vinse poi anche la tappa. Potevano essere 63, perché il grande colle alpino, era presente nel tracciato dell’edizione del 1996, ma non fu poi scalato a causa delle condizioni atmosferiche proibitive.
L’unica impresa sulla quale il Galibier ha deciso direttamente le sorti del Tour de France, è stata quella di Marco Pantani, nel 1998. In un giorno da lupi, per il freddo e la pioggia che sui 2400 metri di quota divenne nevischio, a circa cinque chilometri dalla cima, con in fuga un drappello di buoni corridori, il grande campione di Cesenatico, scattò dal gruppo degli uomini di classifica e, per loro, non restò altro che vederlo sparire all’orizzonte. Si visse la leggenda di uno dei più grandi mai saliti su una bicicletta, sulla leggenda del Galibier. Pantani volò sulle pendenze di quella nobiltà, raggiunse e staccò i fuggitivi, li aspettò nella discesa che portava al Lautaret e li staccò nuovamente, con una ascesa portentosa a Les Deux Alpes, dove era posto l’arrivo. Ipotecò il Tour con quello scatto, là dove il Galibier ruggiva la sua mitologia.
L'unica volta in cui il Tour chiuse la tappa direttamente sulla cima del Galibier fu nel 2011, anno del Centenario, nel quale "il Gigante" fu scalato due volte: la prima con conclusione e la seconda con passaggio interno tappa. A passare primo sulla mitica soglia, fu in ambedue le occasioni, il lussemburghese Andy Schleck.
2011 - L'arrivo vittorioso e solitario di Andy Schleck
Maurizio Ricci detto Morris
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