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Janis Lusis, il mitico sussurro di Latvia.
#1
Brutto invecchiare. Soprattutto oggi, con quel che si vive e con le voragini che si aprono quando il sole, che era, è, e rimarrà la nostra vita, s’appanna…..o lo fanno appannare. 
Da mesi ormai, scrivendo con fatica quel che un tempo era facile, mi capita di combattere coi vuoti di memoria e con gli acciacchi crescenti; con la vergogna dell’intorno che la frattaglia politica ha seminato, o con le vendette che qualcuno ti vuol portare perché eri arrivato troppo in là, o gli stai profondamente antipatico. Non ti sollevano più di tanto autentici capolavori d’ascolto come gli acuti del canto inimitabile di Antonella Ruggiero o l’assolo chitarristico di Time di David Gilmour. E così, in questo ring dove cerchi di schivare diretti e ganci, ti può capitare di scordare l’ovvio, o non sapere che un tuo idolo o preciso riferimento del tuo passato, s’è smaterializzato per restare anima qua, ed incomprensibile là. 
A fine aprile scorso è morto Janis Lusis, ma io l’ho letto solo stamattina e me ne vergogno.  
Devo ricordarlo.   

Il lancio del giavellotto non è solo una specialità dell’atletica leggera, ma il suo gesto rappresenta l’ellisse della nostra vita. Janis Lusis, lettone, costretto, giocoforza, a consumare tutta la sua carriera con la maglia dell’URSS, di questo quadro rappresentativo, è stato il più grande interprete assieme al ceko Jan Zelezny. Nella sua storia c’è uno spaccato del tormentato corso del secolo scorso...... 

Questo ritratto, volle essere un omaggio ad un amico insegnante che vive in Lettonia. Un giovane napoletano che si faceva passare la mozzarella di bufala da Maradona e giocava a biliardo con lui. Vivere lontano dal proprio paese, crea sempre una forte sensazione di malinconia, anche se la terra di nuova residenza, è degna di simpatia, ammirazione e trova compagna nella gradevolezza. 

Dietro le spalle di chi si incontra, le strade che si attraversano, le case che scorrono davanti agli occhi, la televisione che si vede meno comunicativa per ovvi problemi di lingua, c’è però una storia, una cultura. Spesso, come in questo caso, un orgoglio ed una fierezza antropologica che hanno saputo superare la crudeltà del dominio, dell’occupazione, anche senza i carri armati posti negli angoli delle vie. I tratti della Lettonia (Latvia, nella lingua originale), si vedono anche nello sport e sono nobili, tanto nobili. Non è certo il calcio (tra l’altro in crescita su quei luoghi), a determinare la consistenza della sportività e della diffusione di questa particolare forma d’arte in una terra.

Ho ripreso questo mio vecchio racconto su un grandissimo del territorio sua nuova dimora, come il mio percorso inverso per stringergli la mano e fargli sentire quanto, anche in Italia, ci sia un pazzo che non s’è dimenticato delle grandi figure di Lettonia..... Perché l’arte sportiva non possiede i confini beceri tanto cari all’egoismo di tanti, troppi politici, ed il marcato nazionalismo, è sempre idiota quando si proietta sul mondo artistico. 
Un giorno, l’amico mi chiese di Romans Vansteins, bèh....gli risposi…. che nemmeno cinquanta Vansteins, valgono uno come Janis Lusis: un uomo che ha scolpito un gesto, il cui sunto, spero di averlo chiarito un poco col ritratto che segue.....

[Immagine: janis-lusis-100_768x432.jpg]

JANIS LUSIS, IL MITICO SUSSURRO DI LATVIA.

Il lancio del giavellotto rappresenta, per chi scrive, il massimo della bellezza e del profondo richiamo dell’intera atletica leggera. Su un libro che scrissi nel 2000, mi lasciai andare all’emotività che, da sempre, quel gesto mi produce, anche quando le risultanze metriche, non giungono ad avvolgere le note delle penne matematiche. Quel lancio, è la rappresentazione figurata del nostro segmento di vita: dalle speranze iniziali ed innocenti d’un bambino, che cresce nella purezza della ricerca con spirito e volontà, all’adulto, che trova lungo le altezze della conoscenza, della scaltrezza e della furbizia, il vento migliore dei compagni di viaggio, la tranquillità del proprio potenziale e la forza per ergersi a continuo. Infine all’anziano, il cui scopo più palpabile è quello di dimenticare gli anni, le forze che calano e il bisogno di tradursi nella saggezza, per essere il meno ricurvo possibile. 
Raramente, incontriamo in natura delle raffigurazioni cosi fedeli alla nostra proiezione come il gesto ellittico del giavellotto, scagliato dal protagonista atleta, un essere umano proprio come noi. Ne esce una pittura naif, la cui cornice sta nell’orizzonte, il parametro immaginario che ci accompagna da sempre. E’ perfezione. 

Qualcuno potrà dire che il lancio del giavellotto non è il solo gesto ellittico naturale, perché tutti i lanci lo sono, ma una piccola riflessione ci dimostra che non è così. 
Nel martello, c’è la cinghia che tiene lontano da noi il peso da lanciare, c’è un’azione rotatoria su una pedana circolare che simboleggia chiasma. Lì, si costruisce il gesto ellittico, ma la vita non è uno stallo che si scioglie all’improvviso: l’esistenza è una ricerca continua che nasce da subito e si invola su un percorso che muove verso un punto lontano, disegnando, appunto, un segmento. In questo tragitto s’incontrano, con bisogno di lettura per un’efficace reazione, i fatti, le circostanze, gli imprevisti, l’esigenza di rapportarsi con l’ambiente. 
Anche per il lancio del disco, potremmo dire la stessa cosa: medesima circolazione iniziale e, per la tipologia d’attrezzo da scagliare, minor impatto con gli urti dell’ambiente che si va ad incontrare. 
Idem ancora, il lancio del peso nella versione più moderna del carico rotatorio. Di meno quello tradizionale (che ebbe nell’americano Randy Matson, per chi scrive, il più grande alfiere), con la svolta ad “U” in fase di frustata. Ambedue le tipologie però, non trovano sul terreno l’insieme di imprevisti e di letture, nella fattispecie il vento, che può frenare lo slancio verso la meta più lontana, esattamente come la vita. Nel lancio del giavellotto, se non leggi il vento o se fai un errore macroscopico nel gesto, l’attrezzo potrebbe impennarsi e cadere d’improvviso dopo 50 o 60 metri, pur avendo a monte una spallata con forza sufficiente per farne 80. Oppure potrebbe volare troppo basso in una giornata con vento a favore e, di conseguenza, cadere prima di quello che avresti voluto o potuto. In sostanza, per costruire un’ellisse perfetta, serve un insieme di letture che potremmo definirle tattiche, esattamente come nel nostro cammin d’esistenza. Non a caso, le giornate migliori sono quelle di vento contrario, ed anche qui sta l’abilità del lanciatore: incuneare l’attrezzo nel foro ideale, affinché l’aria contraria possa farlo permanere il più possibile in volo. La pressione del vento sulla punta del giavellotto, infatti, è poca cosa, mentre il flusso ventoso, scorrendo sotto la pancia dell’attrezzo, gli offre un involontario sostegno, come fosse un’ideale mano che lo sorregge. 
La vita non è questo? 
E poi la caduta, che potrebbe non lasciare la traccia, quindi il segno di ciò che si è fatto. 
Non è forse così, anche la morte? 
A volte non basta la volontà e l’ottima interpretazione del lancio per lasciare il segno sul terreno, sovente è questione di pura fortuna; in altre ancora, si traduce completamente un volere vissuto nel miglior modo, quando l’attrezzo era in volo, alto e ridente sui nostri sguardi. Ma quanti sono coloro che, tanto in vita quanto in morte, non ricevono il voluto e meritato, o sui cui gioca oltremisura un fattore odioso come la fortuna? 
No, niente, nella divina atletica, che tanta parte ricopre in chi ama lo sport, la cultura e l’arte che ne sono alla base, riesce ad essere più fulgida trasposizione dell’ideale quadro della nostra vita. 
Onore dunque ai dimenticati giavellottisti, da sempre bistrattati dalle telecamere degli artisti di servizio del dio danaro degli sponsor, che sono i registi TV. Una lacrima per loro e per tutti i lanciatori, sacrificati alle corse per il sapore velenoso del business e di quell’auditel, fatto e costruito dai drogati d’ignavia che non sanno di esserlo. 
Ecco perché una manifestazione d’atletica, senza il nostro quadro tradotto nel gesto ellittico del lancio del giavellotto, è come il Louvre senza la Gioconda.
La Finlandia, una terra fredda e densa di laghi, ricordata da noi italiani nella pochezza della nostra cultura sportiva, per i piloti ed i conseguenti motori su due e quattro ruote, è il museo naturale di quel lancio. 
E’ il luogo del pianeta su cui, visitandolo, ci si imbatte su dei bimbi che lanciano, ai margini delle strade e sui campi, dei giavellottini di plastica, sognando di diventare degli Jarvinen, dei Nevala, dei Kinnunen, dei Siitonen. Poi, questi piccini, con l’arrivo dell’età che si incrocia con la memoria delle letture, incontrano i fruscii del mito Janis Lusis, l’uomo che più di ogni altro ha simboleggiato, come un Leonardo o un Raffaello, il quadro sidereo piovuto su di noi, per dirci che nel lancio di quell’attrezzo c’è la nostra vita. 
Là, in quella che non è la sua terra di nascita, rimane scolpito il messaggio di Janis, come un totem sul quale gravitano gli echi, di una parte dei pensieri e delle riflessioni quotidiane. Là, in Finlandia, Lusis è raccontato come fonte d’ammirazione confondendosi coi grandi giavellottisti finnici e quella lanciatrice altrettanto finnica, dal volto che impreziosiva le giornate (e gli occhi di chi scrive), Tiina Lillak. Qua, in Italia, non si sa nemmeno chi sono costoro. 

....continua...
 
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Janis Lusis, il mitico sussurro di Latvia. - da Morris - 22-01-2021, 01:27 PM

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