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Alla Lavagna! Interroghiamo.......Lupo Solitario
(27-03-2020, 06:23 PM)winter Ha scritto: Chiedo la stessa domanda che ho fatto a Luca
Come mai , secondo te , il Piemonte da regione faro del ciclismo italiano (e Mondiale) è sparita da tutti gli albi d'oro negli ultimi 50 anni ?
Zilioli ultima top 10.. in un giro d'italia .. 5° nel 1970

Grazie Morris

Ci sono tante ragioni di carattere culturale, antropologico e ….persino politico. Ma impegnarsi su un simile terreno, significherebbe aprire un sipario interminabile, col rischio di apparire logorroico ed inconcludente, nonché esageratamente breriano. Ma del grande Brera un qualcosa su cui partire in questa breve disamina c’è: in Piemonte si è da troppo tempo legati, con grande intensità, su aurore “monarchiche”. Già prima coi Savoia, indi coi loro sostituti Agnelli e la conseguente sudditanza interamente italiana, unica per dimensioni e genuflessione fra i paesi capitalistici, verso la Fiat. 
Non a caso il ciclismo non è l’unico settore, tema o argomento dove il comunque bellissimo e dignitosissimo Piemonte, non è altri che un “pezzo con poche punte” del suo passato. Una costante infatti c’è, ed è il peso politico, di interessi sociali e sportivi, sui quali Fiat ed indotti, continuano a far vivere quella sorta di reame così particolare. Un Piemonte che, ovviamente, resta una bella regione con una qualità della vita molto buona, ma niente a che vedere con quello che si chiede, in una disamina sociologica, ad un territorio realmente leader. 
Ora, giungendo allo sport del pedale (si spera ancora spinto a motore umano….), è bene premettere che non è pensabile nemmeno attraverso riforme perfette, un ritorno piemontese su quei vertici passati. Semplicemente perché non ci potranno più essere, per determinanti ragioni indipendenti dal Piemonte stesso, che fanno parte della incredibile crisi che attraversa il ciclismo italiano (quello vero, non quello imponente degli amatori che, agonisticamente, non vale un tubo!).  Certo, dirai, basterebbe ritornare a livelli dignitosi, magari con qualcuno nei 10 di un GT ogni tanto: che so….tre in 20 anni. Qui però, a frenare possibili risultanze, intervengono due ordini di fattori: uno generale ed uno particolare. 
Il generale nasce dalla moria di numeri che ha attraversato l’Italia negli ultimi 25 anni. Abbiamo perso mediamente l’80% dei ciclisti che un tempo venivano definiti dilettanti ed in alcune regioni sono scomparsi o quasi i team che li organizzavano. Nelle categorie prettamente giovanili la moria è stata meno accentuata, ma a rendere “grave la temperatura” ci hanno pensato le storture e le miopie mai corrette dell’avviamento insistente, ovvero quello vivente sul “fai pedalare e basta”. Se vuoi fare un ciclista devi prima fare un atleta e devi seguire le linee del suo sviluppo fisico e mentale senza intervenire imponendo, di fatto, delle linee snaturanti. Le storture della competitività, a 10 anni o anche a 15, sono deleterie. Col calo dei numeri poi, s’è scatenata una diminuzione ancor più grave alla luce delle prospettive: quella dei team. Ed il calo dei sodalizi ha ulteriormente lasciato per strada (sovente costringendoli ad abbandonare), quei giovani corridori più in ritardo sul piano fisico. A tutti questi problemi va aggiunto il progressivo stress che la morte di gare e team hanno creato sui giovani ciclisti e le rispettive famiglie, sia in termini di spostamenti, che di spese. In altre parole, solo come costi, un ciclista grava su famiglie o sodalizi, anche dieci volte più di un calciatore. L’imponente diminuzione di numeri ha poi reso ancora più tenui le accennate politiche federali verso ciclodromi, circuiti protetti e  utilizzo più razionale dei velodromi esistenti e quelli recuperabili. 
Su questi che sono i principali guai generali, vanno aggiunti quelli particolari del Piemonte. 
Innanzi tutto il disimpegno progressivo e tangibile di Fiat verso il ciclismo, arrivato al punto zero già da lustri. Ad esempio il Team Fiatagri di dilettanti di 1a e 2a serie, con direttore sportivo Italo Zilioli, chiuse i battenti nel 1990 e nei primi anni del millennio s’è chiuso anche il sostegno in termini di mezzi all’organizzazione del Giro d’Italia e di altri importanti momenti organizzativi italiani. Su questo filone non possono fare testo occasionali interventi a carico di talune concessionarie e vi è poi da rimarcare la sibillina o rarefatta presenza delle aziende di varia tipologia del Gruppo Fiat, fra gli sponsor di team e, addirittura, nei momenti d’organizzazione del movimento ciclistico. E quando il re va verso il disimpegno mostrandolo pure sui giornali che controlla, anche i vassalli dell’industria e della conseguente economia, non rimangono insensibili, soprattutto quelli a più alta sensibilità simpatetica (sarà un caso, ma in Italia, il ciclismo non ha mai visto squadre di portata abbinate a banche e telefonia….) e, naturalmente, anche quelle geograficamente più vicine. E qui, dal mondo Fiat alla Ferrero il passo è breve. Certo il defunto titolare del colosso dolciario era un appassionato di ciclismo ed ha continuato a sponsorizzare il Giro d’Italia, col marchio Estathe, ma qui ci si dimentica che ci sono merceologie dove qualsivoglia direzione marketing, sa che un grande evento come il Giro è più competitivo, ad esempio, di un considerevole numero di spot televisivi normali. Ma l’azienda di Alba è forse mai entrata con un team di evidenza nel mondo del pedale? E lo han fatto per caso le consorelle di quello che è da considerarsi un altro gruppo? Bèh … per il movimento è molto più importante un team abbinato, piuttosto che l’inserzione sulla maglia rosa. 
Sembrano dunque addirittura preistorici i tempi dove si poteva fare a meno degli indirizzi sponsoristici provenienti dalle grandi aziende citate, tanto è vero che piccole entità come la Baratti venivano naturali verso il pedale, per non parlare poi di industrie in perfetta fase di lancio sul distinguo italiano della pasta, come la Gazzola. 
Negli anni poi sono venute a mancare quelle figure di riferimento un po’ tecniche e d’immagine e un po’ manager, che sapevano raccogliere e collegare il movimento, fungere persino ad una forma di garanzia per quegli sponsor medi, atti a raggruppare e mantenere in vita sodalizi e, conseguentemente, gare e corridori. Figure che potevano persino cementare quadri dirigenziali e costruire più facilmente una nuova leva di tecnici. Personaggi, per citarne alcuni, dai più lontani ai meno, scomparsi o inutilizzati da tempo, come Giuseppe Graglia, Antonio Covolo, Guido Messina, Italo Zilioli, Domenico Cavallo. È rimasto Gianni Savio, ma potremmo definirlo più “poliglotta del ciclismo” che piemontese. 

La caduta dei quadri tecnici è stata negli anni un’altra costante, basti citare che il grandissimo Messina ha fatto il preparatore-insegnante per tanti anni dopo l’età che consideriamo pensionabile, così come il Piemonte ha visto la decadenza, fin quasi alla scomparsa, dell’impiantistica. Certo, il Motovelodromo di Torino esiste ancora, ma è inutilizzato da tanto tempo e l’azienda che ha ricevuto l’incarico di farlo rivivere, è impegnata nel paddle. Un solo impianto valido (e bello) è rimasto: il Velodromo Francone di San Francesco al Campo di Torino. Un anello attivo contro i cinque del Veneto, i quattro della Lombardia, i tre dell’Emilia Romagna, i due della Toscana, dell’Abruzzo, del Friuli e della Sicilia. Inutile dire che i velodromi anche di 400 metri in cemento, rappresentano al netto “delle puttanate dell’Uci”, un grandissimo e peculiare veicolo di formazione dell’atleta ciclista. 

Se questi sono a grandi linee i motivi della crisi del ciclismo agonistico in Piemonte, va però rimarcata, a conferma di un trend nazionale, la crescita anche nella regione piemontese, del movimento femminile. La più forte ciclista Italiana, perlomeno in termini di completezza e competitività, Elisa Longo Borghini, è piemontese. Idem la grande speranza Elisa Balsamo. Non sono casi isolati, dietro c’è una bella vivacità e delle autentiche icone nella promozione e nell’avviamento come la “Racconigi Cycling Team”.
 
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