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Marco Pantani
I "giornalisti" hanno ucciso ancora Pantani
Pantani è morto. Oggi, 22 gennaio 2015, per la seconda volta. A farlo fuori è stata nuovamente la classe dei giornalisti. La stessa che lo aveva osannato fino alla vigilia di Madonna di Campiglio e che lo ha additato come un reietto per tanti anni tanto da portarlo alla morte. Ma tutto ciò ancora non era abbastanza. Bisognava andare oltre, sfruttarlo per sommare altri click e vendere altre inutili copie. La pubblicazione delle foto scattate nel Residence che ha ospitato gli ultimi momenti del "Pirata" è solo l'ultima vigliaccata fatta da giornali, giornalisti e siti web, anche del settore. Una pugnalata alle spalle che non può lasciare indifferenti. Perchè stare zitti, in queste occasioni, significa essere complici.

Ecco allora il nostro atto di accusa: io, Andrea Fin, così come tutta la redazione di ciclismoweb.net non accettiamo di appartenere alla stessa categoria di questi personaggi avidi solo di "più click" e di "più vendite". Sappiatelo, se essere giornalisti significa dare spazio in prima pagina a quelle foto, noi "orange" da domani ci iscriveremo tutti all'elenco dei carpentieri artigiani. E saremo pure fieri di continuare a fare il nostro lavoro in maniera seria e differente rispetto a questi "giornalisti".

Il giornalismo, specie quello 2.0, è forzatamente rivolto ad attrarre lettori. Anche ciclismoweb.net non è estraneo a questa dinamica, ma non schiavo della stessa. Le foto di Marco Pantani riverso a terra, le stesse pubblicate quest'oggi da altri "colleghi" erano già nella disponibilità della redazione di ciclismoweb.net da alcuni mesi, cosi come per quasi tutte le redazioni d'Italia: noi ci siamo rifiutati di fare mercato di questo materiale, peraltro in buona compagnia visto che tante altre autorevoli testate hanno condiviso la stessa scelta.

Non per nascondere la realtà ma perchè ciò che viene ritratto in quelle foto, prima di essere l'oggetto di una indagine, era una persona in carne ed ossa e quelle striature rosse sono sangue vero, non semplici effetti speciali da film splatter.

Coloro che stanno nel retrobottega di un giornale o di una testata giornalistica online qualsiasi, hanno delle responsabilità e proprio per questo dovrebbero essere dei Giornalisti. E per essere giornalisti, per dirsi giornalisti e per atteggiarsi da giornalisti, è bene ricordarlo, non basta poter esibire una tessera in pseudo-cartone. Prima di tutto, è necessario usare il cervello.

La fotografia, come la penna, sono mezzi potenti, ma bisogna saperli utilizzare. Tutto questo business dello scandalo, lo stesso che si attiva ogni volta che l'antidoping emette un risultato positivo, non giova a nessuno: a perderne, in termini di credibilità e di etica, è l'intero movimento delle due ruote e l'intera categoria dei giornalisti.

A tutti i nostri lettori, agli atleti e ai colleghi che si sentiranno di condividere questa nostra presa di posizione chiediamo solo un favore: prendete carta e penna, annotatevi i nomi di chi ha pugnalato nuovamente il Pirata e l'intero ciclismo italiano e mettete quella lista di giornali e siti web bene in vista. Quella è la black list di chi pensa a Marco Pantani e alle due ruote, non per fare informazione, ma solo per fare i propri interessi: gente da evitare.

Scritto da Andrea Fin per Ciclismoweb.net
 
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[+] A 1 utente piace il post di SarriTheBest
Concordo, è uno schifo fare queste cose. Che poi non aiutano a capire nulla, anzi se vogliamo confondono solo la gente...
 
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Ovviamente hanno ragione su questo, ma prendere le distanze da questa cosa è facilissimo, è come se scrivessero che sono a favore della pace nel mondo, sono tutti d'accordo e a loro non costa niente. Su questo piano trash-macabro la vicenda ce l'hanno messa l'avvocato e i suoi amici giornalisti, quindi spero che non arrivino lamentele anche da lì. Nel frattempo l'inchiesta va avanti sui giornali (cioè non è che va proprio avanti, ci sono le conclusioni, manca tutto il resto ma non è fondamentale) ma in procura tutto tace
 
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Giusto per farvi capire come sono andate le cose, le foto sono state consegnate alle redazioni di tutta Italia dall'avvocato della famiglia Pantani per essere pubblicate.
 
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Grande immenso Pirata, ti porto nel mio cuore
 
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L'inchiesta di Rimini sarà archiviata visto che non è emerso nulla di nuovo e tutte le ipotesi dei nuovi esami pagati dalla famiglia Pantani si scontrano con due fatti che i giornalisti continuano a tenere in secondo piano perché altrimenti il complotto non funziona: 1-La morte è stata causata dagli psicofarmaci e non dalla coca 2-Pantani era chiuso dall'interno nella sua stanza quando è morto (non si poteva uscire dalla finestra né, evidentemente, dalla porta).
Naturalmente il buon avvocato De Rensis non ci sta e prova a mandarla ancora un po' per le lunghe chiedendo che il caso venga spostato a Bologna, non penso succederà, ma purtroppo non penso neanche che 'archiviazione convinca i vari Ceniti, De Zan e compagnia a smettere di fare gli sciacalli
 
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"Fu la Camorra a far perdere il Giro a Pantani"
Esclusiva di Davide Dezan per Premium Sport: ecco il testo dell'intercettazione incriminata

Un detenuto vicino alla Camorra e a Vallanzasca, una telefonata intercettata e l'indiscrezione esclusiva raccolta per Premium Sport dal nostro Davide Dezan. Sono i nuovi ingredienti del "caso Pantani" e di quanto, mano a mano, sta uscendo sul Giro perso dal Pirata nel '99, quando fu fermato per doping a Madonna di Campiglio. Riportiamo qui sotto il testo dell'intercettazione:

L’uomo intercettato è lo stesso che, secondo Renato Vallanzasca, confidò in prigione al criminale milanese quale sarebbe stato l’esito del Giro d’Italia del ’99, ovvero che Pantani, che fino a quel momento era stato dominatore assoluto, non avrebbe finito la corsa.

Dopo le dichiarazioni di Vallanzasca, e grazie al lavoro della Procura di Forlì e di quella di Napoli, l’uomo è stato identificato e interrogato e subito dopo ha telefonato a un parente. Telefonata che la Procura ha intercettato e che Premium Sport diffonde oggi per la prima volta, in esclusiva assoluta.

Uomo: “Mi hanno interrogato sulla morte di Pantani.”
Parente: “Noooo!!! Va buò, e che c’entri tu?.”
U: “E che c’azzecca. Allora, Vallanzasca ha fatto delle dichiarazioni.”
P: “Noooo.”
U: “All’epoca dei fatti, nel ’99, loro (i Carabinieri, ndr) sono andati a prendere la lista di tutti i napoletani che erano...”
P: “In galera.”
U: “Insieme a Vallanzasca. E mi hanno trovato pure a me. Io gli davo a mangià. Nel senso che, non è che gli davo da mangiare: io gli preparavo da mangiare tutti i giorni perché è una persona che merita. È da tanti anni in galera, mangiavamo assieme, facevamo società insieme.”
P: “E che c’entrava Vallanzasca con sto Pantani?.”
U: “Vallanzasca poche sere fa ha fatto delle dichiarazioni.”
P: “Una dichiarazione...”
U: “Dicendo che un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: ‘Guarda che il Giro d’Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine. Perché sbanca tutte ‘e cose perché si sono giocati tutti quanti a isso. E quindi praticamente la Camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato. Questa cosa ci tiene a saperla anche la mamma.”
P: “Ma è vera questa cosa?.”
U: “Sì, sì, sì… sì, sì.”

http://www.sportmediaset.mediaset.it/alt...602a.shtml
 
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Intercettazione

Così la camorra fermò Pantani. ASCOLTA la clamorosa intercettazione

Pubblicato da La Gazzetta dello Sport su Lunedì 14 marzo 2016
 
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A seguire, il nuovo libro-verità di De Zan sulla morte di Pantani nel quale è possibile trovare anche l'intervista esclusiva al camorrista amico di Vallanzasca. :o :o :o
 
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Mah.

(intanto non capisco se Gibo ci è o ci fa)
 
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Per adesso ci faccio. Asd
In futuro però non mi stupirei affatto (anzi!) se la cosa diventasse realtà... Sese
 
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No appunto, per quello dico.

DeZan sono 10 anni che campa su questa storia.
 
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Beppe Conti dice la sua..
http://www.tuttobiciweb.it/?page=news&cod=88164&tp=n
 
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[fon‌t=Times New Roman]Nel caldo di quel luglio che s’incrociava col traffico di una riviera più famosa che bella, Claudio, un corridore professionista, che un mese prima aveva chiuso il Giro d’Italia al tredicesimo posto, suo miglior piazzamento di sempre, si trovò a dover rispondere alle pressanti richieste di un giovane juniores, suo vicino di casa. “So che domani andrai a provare la gamba su quel colle che mi dicono durissimo e dove ci fu un duello fra Merckx e Fuente. Posso venire con te?” - continuava a chiedergli il collega in erba. Claudio, che sapeva quanto fosse bravo quel ragazzino minuto dai capelli lunghi ma non fitti e con due orecchie che ricordavano quelle degli elefanti, non riuscì a dirgli di “no”. Già se lo era trovato sulle strade e pur non vincendo come i suoi compagni di squadra le gare, riconosceva al giovincello, un talento superiore al comune. Tre mesi prima lo aveva visto schizzare via ai coetanei su una salita che tanto piaceva anche a lui, la Ciola, e ne era rimasto impressionato al punto di ricordarlo ad ogni incontro con le pendenze, in allenamento e pure in gara. La sera, dopo aver risposto affermativamente a quel ragazzo insistente, telefonò ad Alfio, suo collega professionista ed ex compagno di squadra, col quale usciva abitualmente durante il training settimanale. Si trattava di un corridore che, dieci anni prima, aveva fatto sognare la loro terra con significativi piazzamenti al Giro e delle belle vittorie nelle classiche nazionali. Uno che era verso la fine della carriera, più anziano di Claudio di un solo anno, ma ancor validissimo alfiere, perlomeno fra i ciclisti della zona. Nella telefonata, la novità del terzo elemento della sgambata che li attendeva il giorno successivo fu discussa, non già per un senso di scocciatura, bensì per provare le virtù di quel ragazzo, di cui lo stesso Alfio aveva conosciuto la bravura in salita e, magari, trovar modo di farlo impazzire di fatica. Insomma, i due professionisti si misero d’accordo per fare di quell’allenamento, una seduta di divertimento alle spalle di quel giovane: lo avrebbero attaccato a turno, costringendo il ragazzo dalle orecchie a sventola, ad un tour de force indimenticabile. Il teatro scelto, la salita del Valico del Barbotto, proprio quella che aveva spinto lo juniores vicino di Claudio, alla richiesta di partecipazione. Ed il giorno dopo, come da copione, i tre si trovarono sulle prime rampe del passo, col più anziano a scandire un’andatura fortissima. “Ce la fai a tenere questo passo” - disse Alfio al ragazzino. “Sì, sto bene, non ho problemi”- rispose il giovane. A quel punto, Claudio partì a tutta e, visto che il più anziano dei professionisti non sui muoveva, il bebè della compagnia, gli urlò: “Che faccio, lo devo andare a prendere?” “Certo, e me lo chiedi pure!?”- rispose Alfio. Il ragazzo con le orecchie a sventola, s’alzò sui pedali e in un battibaleno andò a prendere il fuggitivo, portandosi a ruota, non senza una bella fetta di fatica, il maturo prof. Neanche il tempo di guardare in faccia il ragazzino, che il ricongiungimento fu rotto da un attacco dell’ex speranza di quella terra. Il giovane, allora, si rivolse a Claudio con la medesima frase: “Che devo fare?” “Che domanda, vallo a prendere se ne sei capace!” – gli rispose con affanno il vicino di casa. Ancora una volta il giovane juniores s’alzò sui pedali e andò con facilità a riprendere quella gloria della zona. I due professionisti, scansando lo stupore, provarono un affondo sul tratto più duro della micidiale salita, ma il ragazzino senza dar segni di fatica o fastidio, non si staccò. “Ne hai ancora?” esclamò Claudio al giovane. “Certo che ne ho ancora” – rispose “orecchie a sventola”. A quel punto, Alfio, richiamò le ultime forze come se fosse davvero al Giro d’Italia e ripartì, ma anche stavolta, non senza aver prima chiesto una specie di permesso a Claudio, il giovincello si riportò sul fuggitivo. In quegli istanti, Alfio, i cui occhi azzurri avevano scacciato la fatica con la luminosità dell’ammirazione, si rivolse al giovane camoscio e gli disse: “Prova a staccarci, in fondo alla cima non manca molto e se ti staccherai tu, noi ti aspetteremo in discesa”. Nelle parole del più anziano, c’era la sensazione che ad una simile eventualità, non si sarebbe arrivati. Il ragazzo, chiamato in causa nuovamente, disse ai due che, nel frattempo, continuavano a spingere al massimo per metterlo in crisi: “Sentite, so bene che non mi credete, ma io ho ancora tanta birra e se vi stacco, spero non ve ne abbiate a male”. Come finì di parlare, il giovincello partì e, ai due professionisti, non rimase che vederlo pian piano allontanarsi dai lori sguardi intrisi di stupore e fatica. In cima al Barbotto, arrivò solo il ragazzo con le orecchie a sventola; gli altri due, da quel giorno, iniziarono ad applaudirlo in ogni occasione. Quel minuto ragazzo, si chiamava Marco Pantani. Era l’anno 1987.[/font]

[fon‌t=Times New Roman]Maurizio Ricci detto Morris[/font]
 
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Morris

Nel caldo di quel luglio...
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Avevo una vaga idea di questo episodio, nelle tue parole si dettaglia e rivive. Quanta bellezza e quanta tristezza. 
Grazie Morris
 
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Nell’anniversario della più grande impresa di Marco, mi viene in mente…..
 
Un tempo, la mitologia era un motore degli studi classici, un riferimento per costruire nei giovani il volto vero delle metafore, ed a concepire il versante più profondo della retorica. La fantasia greca, che era stata sì capace di condensare quel pragmatismo che portò al dominio militare senza disperderne mai gli aspetti culturali, trovava nella mitologia, tanto la sovrastruttura della religione pagana, quanto il solco più evidente di un’antropologia che ha poi segnato l’intera storia umana. Quel tronco culturale che è passato sull’intera terra attraverso le trasmissioni delle conquiste, dei cambiamenti sociali, degli stessi confini fra popoli e stati, s’è inchinato anch’esso alle sempre crescenti barbarie dei difetti umani spinti all’ennesima potenza dal danaro, ma non è scomparso. Nella nostra ellisse, fra gli istmi e le autostrade più apparenti che reali del nostro cammino, quel filone culturale che potremmo ormai definire ancestrale, ogni tanto fa capolino e lo ritroviamo come un’oasi che ci può far sognare, fantasticare, ma anche insegnarci un’elevazione che i pragmatici bigliettoni, mai e poi mai potranno. Sì, la mitologia, che i vecchi come me han sempre tenuto come autoctona riserva per sorridere nell’interno, aldilà dell’apparenza esterna, continua a generare i suoi impianti e le similitudini nell’ogni incontro, fino ad intenerire ed alleggerire l’animo verso il prossimo. Della fantasia greca, prima ancora dei sontuosi ed illuminati ricettori romani, giungono richiami che si librano inimmaginabili anche in chi sembra moderno o troppo figlio dell’odierna “era della fretta”. E’ trascinante condensare quei flash fra passato lontanissimo ed immaginario sulle spalle di figure presenti, ma diverse dal solito, le stesse che avrebbero spinto quei fulcri ellenici, a sfornare mito su un campo d’azione particolare: un distinguo da seminare sulla terra per avvicinarla al cielo.
Quando incontrai i primi segni di Marco Pantani ne rimasi affascinato, ma il fascino era ancora troppo debole di fronte al pragmatismo del narratore intriso di cronaca, di quel giornalista mai consideratosi e definitosi tale, ma ugualmente votato al ruolo. La conoscenza diretta aumentava l’interesse, iniziava a far da strada al sogno e alla fantasia su un ragazzo che già appariva troppo anomalo per non entrare nel territorio degli artisti. Lui si muoveva con l’istinto, con le sensazioni per provare compiutamente se stesso. Che mi piacesse sempre più era normale, troppo normale per rimanere sulla crosta di quello status e quando il tempo, gli incontri, ed i suoi voli iniziarono la continuità dell’essenza, mi ritrovai a scavare sulle mie autoctone pagine, là, in quegli angoli che davano anche a me, il piacere di volare. Negli anni mi feci l’idea che la mitologia in qualche modo avesse di Marco tracciato qualche stampo involontariamente imitato, un qualche emulo da togliere dal condensato per capire quel ragazzo che dipingeva ogni cosa che toccava, nella sofferenza e nei disagi, quanto nelle gioie. Mi colpiva un aspetto: i suoi allenamenti totalmente istintivi e densi dell’intuito di chi sa leggere se stesso come nessuno, senza sapere quali motivazioni, magari scientifiche, ne fossero alla base, erano un riferimento, nelle sue zone, per giovani pedalatori del mezzo bicicletta, per la gente che poteva essere lungo le strade a ricercare un’occasione per vederlo. “Ho incontrato Pantani” – mi disse un giorno un giovane juniores appena mi vide. “Ho pedalato senza staccare gli occhi da lui, dal suo stile, dalla sua leggerezza, tanto, ma tanto di più di quando lo vedo in televisione, dove pure mi incollo sul video. Ero ipnotizzato e non sentivo la fatica. Era troppo bello stargli a due passi, nel silenzio di una strada di montagna”- continuò come se il suo sguardo fosse un orizzonte. “Oggi sono stato fortunato, ho visto qualcosa che né la televisione né la tanta gente incontrata sulla bicicletta, mi avevano fatto vedere. Purtroppo sono stati pochi attimi, ma era tanto tempo che cercavo l’incontro con Marco, da sentirmi più che soddisfatto” – mi raccontò un vero cicloturista da quarant’anni sulle strade. “Se lo incontri su una carreggiata, ti nasce il bisogno di farlo sempre. E dire che non ero un suo tifoso” – mi disse un amatore di quelli che corrono inseguendo il sogno di essere qualcuno. Testimonianze a decine che m’han raggiunto negli anni fino a finire nella mia squadra, attraverso le parole di una che vedevo luminosa e che tolsi dall’abbandono della carriera. Una che poi, grazie anche alla mia ingovernabilità razionale, divenne grande fino ad entrare nel novero dei dieci leggendari delle doppiette che han segnato come nessuno la storia del pedale. Una che parlava poco, difficile alla partecipazione emotiva e al dipinto del sogno da esternare a qualcuno. Lei mi parlò con le lacrime agli occhi e dal suo racconto si formò compiutamente in me, quell’interno trasporto che univa, della mitologia, un fulcro dei suoi aloni con l’inimitabile Marco Pantani.
Quella atleta m’aveva aspettato pazientemente frenando la sua immanente voglia di raccontare per condividere. L’aveva fatto a margine dalla tavola dove le compagne parlavano di argomenti che in quel tardo pomeriggio vedeva tanto secondari alla luce che l’aveva illuminata. Non voleva graffiare quel chiarore che l’aveva avvolta fino a portarla a vedere in me, uno scrigno su cui depositare quel tesoro trovato per caso. Quando mi vide mi rapì per portarmi là dove nessuna collega poteva sentirci. Era decisa, come non l’avevo mai vista. I suoi occhi neri brillavano come fossero rinfrescati da quella sottile patina che solo le lacrime di gioia sanno creare. Aveva incontrato Marco e me lo voleva dire. Sì, proprio lei, che era la compagna di uno dei gregari più importanti del suo principale avversario, era rimasta folgorata da quell’incontro. “Mi ha come preso per mano – esordì – mettendomi a mio agio col racconto di quel giorno sulle montagne dell’altura colombiana, dicendomi dei colloqui in corsa fra lui e chi sai, della sua impossibilità di scattare come voleva per la pioggia che aveva reso scivoloso un asfalto molto strano. Della consapevolezza che di questa sua impossibilità aveva un avversario che considerava leale e che stimava, ricambiato. Dovevano correre per il mondiale, erano i più forti, ma furono beffati da un campione normale. M’ha raccontato del suo amore verso la bicicletta e di quanto sia importante viverlo, sempre, come il primo giorno. Mi ha incoraggiata, dicendomi che sono brava e di quanto sia bello il mio stile tanto simile a quello del suo avversario. Secondo lui, prima o poi, diventerò una figura importante. S’è poi interessato alla mia storia e al nostro mondo, dicendomi che è necessario farci sentire, perché il ciclismo, sport di fatica e di valori, non può continuare a vivere con queste sproporzioni fra uomini e donne. Ad un certo punto, s’è ricordato che doveva raggiungere i compagni e, dopo essersi scusato, l’ho visto allontanarsi fino a sparire all’orizzonte con una velocità mai vista. Lui è immenso, non ha solamente il fascino dei campioni, ma qualcosa di molto più grande. Non mi chiedere cosa sia però, perché non sarei capace di spiegarlo nemmeno nella mia lingua”. L’avevo lasciata parlare di getto senza accennare il benché minimo frammezzo. Non l’ho mai più vista così, nemmeno quando conquistò eccelsi traguardi. Alla sua ultima frase, le lacrime, che le erano cresciute mentre il suo racconto scorreva, avevano raggiunto l’intensità ed il suono del pianto. Era l’emozione di una gioia.
Dopo poco più di un mese da quella sera, il 5 giugno 1999, l’omino perfetto su una bicicletta, colui che dipingeva tutto ciò che toccava fino a creare in chi poteva, l’intima volontà di incontrarlo sulle strade montane, fu sfregiato e colpito. Per un normale, magari intriso d’ipocrisia, opportunismo e cattiverie tipicamente umane, il colpo sarebbe stato assorbito, per un artista supremo no! Se non fosse stato così, non l’avremmo mai raccontato e gli sguardi non avrebbero mai accompagnato l’intensità di quel coacervo di emozioni che stanno fra gli occhi e il cuore. E come tutte le storie che si vogliono perfide, al colpo che straziava l’artista che si condensava nel mito, fece seguito la tortura più becera: quella che congiunge sinergica la bocca mefitica dei media, con l’inconsapevole incapacità di riconoscere il boia che può giacere in una toga.
Nei miei voli interni e totalmente autoctoni, fu l’incontro di quella mia atleta con Marco, a definire la cornice del riferimento mitologico per quel ragazzo così unico sulla bicicletta, che tutti volevano vedere da vicino, sulle medesime strade e traiettorie, per poter dire: “L’ho visto dal vivo, senza il confronto con gli altri e me lo sono impresso nel cuore”. Già, quello che scorreva, finalmente s’era congiunto e si imponeva: “Marco era una figura che sublimava Pan e Apollo!” Un po’ l’uno, ed un po’ l’altro.
Della divinità arcadica Pan, addirittura iniziale del suo agnomen, raccoglieva l’imprevedibilità (sia nel tratto agonistico di gara, che di allenamento), l’amore per le forme artistiche (per Pane, come era altresì conosciuto quel dio, la musica e la danza; per Pantani la pittura, la musica, la stessa danza, ed una sottile vocazione poetica che superava le difficoltà sintattiche). Il dio proteggeva i cacciatori ed i pescatori, a cui era legato perché li vedeva come forme estreme, o acute, di quella natura contenitore esaustivo del bisogno primario dell’uomo: sfamarsi. Per cacciare e pescare servivano pure doti di furbizia, intelligenza, resistenza, ed istinto. Marco difendeva (inascoltato o usato) la sua categoria, ovvero quei ciclisti che sono spesso cacciatori e pescatori in un mare di resistenza, dove per emergere, non basta essere lì, ma servono tutte le facoltà di nascita. Di loro era sindacalista prima ancora che per ruolo, per il bisogno di difendere l’essenza della natura dello sport, ovvero, proprio l’atleta. Pan, quando era spinto dall’amore verso la naiade Siringa e lei per respingerlo si trasformò in una canna con un aculeo (di lì il termine “siringa”), seppe far diventare quell’arnese un flauto dal suono melodioso e trasportante. Pantani, nell’immedesimarsi sul sentito dipinto del ciclismo, modificò senza cancellare l’umana sofferenza, la fatica e la cattiveria delle asperità, in un inno alla bellezza di quella prova, fino a donare in chi lo guardava, l’ebbrezza e la leggerezza d’un gioioso sogno. Pan, era il dio delle selve che erano i luoghi in cui si confondeva; Marco, nei suoi dipinti, portava quei boschi che erano per lui un riferimento e che avrebbe sicuramente vissuto con intensità più estesa, se non fosse nato in quest’era metallica, intrisa dei connotati dello stress e del superficiale. La divinità arcadica era protettore dei greggi o pastori e ne presiedeva il sonno sul mezzogiorno, ma concedeva loro pure il sogno rivelatore del futuro, a volte denso di terrore (di lì il termine “timor panico”). Pantani, alle genti moderne, nelle ore di libertà, donava un gesto sublime da viversi come la costruzione, mattone su mattone, di un’illusione, ma spezzava quegli incantesimi nelle altre ore del giorno, attraverso frasi rivelatrici (spesso inascoltate), quasi sempre avveratesi, alcune così pesanti per le crude verità contenute, da spingere i carnefici alla sua possibile soppressione: in fondo era un uomo, quindi vulnerabile. Pan, non simboleggiava valore sociale o morale, ma l’istinto. Marco, i valori li voleva simboleggiare nelle interpretazioni delle gesta, non voleva ergersi esempio per confondersi prete in un mondo che i preti non li possiede manco quando ne portano vestigia, mentre dell’istinto era supremo siamese. La divinità arcadica, per il suo naturalismo, ed i significati del suo nome tradotti alla lettera dal greco (Pan, significa “il tutto”), spinse la filosofia a definire “panteisti”, coloro che affermavano che "tutto è Dio", oppure che "tutto è divino", identificando la natura come somma divinità. Panteisti furono, tra gli altri, Johannes Eckhart, Giordano Bruno, Friedrich Schelling e Wilhelm Hegel. Marco Pantani, ha avuto tutto per fare di lui l’ispiratore di una corrente che vuole leggere le gesta sportive, dall’interno del talento. Del genio e dell’istinto portato sulle strade da allenamenti pettinati e da una vita che concedeva ai centri nervosi l’importanza di non sottrarsi alla vita stessa, nel giusto dosaggio che le proprie facoltà istintivamente consentivano. Non l’uomo che diventa campione attraverso programmazioni da monaca di clausura, ma atleta che si priva fisicamente e mentalmente il limite minimo possibile, per raggiungere, nel proprio acuto dipinto, l’espressività più vera, profonda e intensa. Dell’atleta che insegna agli allenatori, quanto sia, proprio il talento, la prima ed insostituibile pagina da mettere nel cuore e nel cervello, affinché lo sport divenga realmente una testimonianza del sublime dono della vita. Un’ellisse che non va mortificata con fili, macchinari, impulsi e quadranti di quell’orrida e criminale matematica che vuole dare esattezza e risposte, a ciò che è più grande di noi, perché l’ignoto l’ha impresso, senza leggi, all’interno dell’insieme d’un corpo e di una mente.
Apollo, che nella mitologia possiede diverse sovrapposizioni d’epigone col meno noto Pan, era il dio della luce, delle arti e della bellezza. Un dio che era arrivato, pur nelle immediate dimostrazioni di divinità, alla considerazione piena del ruolo, con grandi difficoltà indipendenti da lui. Di questa figura mitologica, Marco, ha rivissuto il tratto più completo e convinto. La luce di Phoebos (il brillante greco, altro nome d’Apollo), viveva in Pantani quando lo incontravi sui segni della sua gestualità sulla bicicletta. Era il trasporto narrato da chi lo incontrava in allenamento, prima ancora di ciò che si vedeva quando partiva nei suoi voli d’impresa agonistica. Era il fascino che trasmetteva e che assumeva, sempre, la luminosità nelle trasposizioni figurate. Che fosse un artista nel suo modo di concepirsi ignaro del resto, ma solo vivendo le voci ed i richiami del suo interno, non è un pallino delle mie convinzioni, ma una lettura per chi gli stava vicino e non lo viveva con la perfidia dell’interesse e del tornaconto. A parlare per Marco ci sono i raffronti, le tracce indelebili, riassumibili nell’intensità di altre forme del suo tratto: i dipinti innanzi tutto. Nessuno può negare quanta musicalità vi fosse nella sua pedalata e poesia nel suo modo di scrivere, aldilà degli errori in italiano. La scelta istintiva degli aggettivi, alcuni da pensare sconosciuti per uno di siffatta scolarità, eppure presenti fino al grido, come una disperata ricerca di far capire la necessità di una riflessione pronta all’inversione o alla constatazione, sono tutti aspetti peculiari della poesia. Indi, la bellezza vissuta sullo stile perfetto che diventava ancor più evidente, quando la fatica confondeva l’umana sofferenza, ed ogni singolo tassello del gesto, assumeva la verità dell’essenza. La scalata di Oropa, incredibile a dirsi, ha trovato nell’impresa agonistica eccelsa, un fatto secondario rispetto alla perfezione stilistica che portava sul mezzo, la trasmissione più fedele possibile delle sue qualità fisico mentali. Mai ho visto una tale congruenza nell’intero sport. E dire che tutto ciò che si poneva fra Marco e la bici, era il frutto del suo seminato istintivo. Infine, per completare il confronto col mitologico Apollo, i suoi incidenti di percorso, prima della definitiva consacrazione. Già, se per la divinità erano gli altri dei, ed in particolare Zeus, ovvero suo padre, nonché sommo d’Olimpo, a creargli difficoltà di percorso, sottoponendolo a penitenze e conseguenti purificazioni, anche per Pantani, ad un certo punto, sembrò farsi insuperabile l’avversità del fato. Per questi motivi perse tappe importanti del suo segmento umano, ma seppe sempre rialzarsi fino a divenire invincibile fra i propri compagni d’essere. Non si rifece solo di fronte all’agguato che era stato scelto per lui, al fine di definirlo, appunto, un uomo. Lì fu ucciso, perché gli artisti supremi sono fatti di cristallo, ma nonostante lo scopo raggiunto dai carnefici a livello terreno, non fu ammazzato il suo mito. Sì, proprio quel mito che urla ogni notte nelle rarefatte coscienze di quei boia, per trafiggere con l’arco d’Apollo, il loro umano senso di panico. Non è un volo pindarico di chi ha scritto, ma una realtà consumante in quei figuri. Che ci sono. Eccome!  
 
[fon‌t=Times New Roman]Maurizio Ricci detto Morris
[/font]
 
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Bellissimo Morris.
Mi hai regato una emozione, una splendida piccola isola, immersa nella freshezza e nei colori del tramonto, in mezzo ad un giorno come altri.
Che si diceva della narrazione? :)
 
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D'accordo, sono le Iene, però però però, le persone intervistate (della mia terra, tra l'altro) sono vere e quello che han detto rappresenta un'altra pietra sul muro di una Italia che ha crepe mefitiche dappertutto. Comunque, solo una conferma  per quei tanti (la maggioranza) che han capito come stanno le cose, ma non si azzardano a dirlo. Sia chiaro, la Sicilia del "Sasso in bocca", e la corruzione ad ogni livello, ha copie in tutto l' ex Bel Paese.

https://www.mediasetplay.mediaset.it/vid...1201002C22
 
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E' alquanto nota una intervista in cui Pantani descriveva uno dei suoi giri di allenamento preferiti. Ad esempio, qui un link.
Ho notato che i dettagli erano molti e la ricostruzione che ne ho tratto dovrebbe essere abbastanza fedele, a parte l'incertezza del percorso per andare verso San Marino e per rientrare, alla fine, a Cesenatico. 
Pantani partiva da casa e vi tornava, qui partenza e arrivo sono a Piazza Marconi, dove sorge il monumento a lui dedicato. 

[Immagine: z_Pantani_Training.jpg]

link

Nel bell'aneddoto raccontato da Morris qualche post fa si parla della Ciola e della salita di Barbotto. 
Nel Memorial Pantani si passa più volte per la salita di Montevecchio, più vicina a Cesenatico. Anche la adiacente salita di Montecodruzzo viene citata tra i suoi percorsi di allenamento. 
Penso comunque che possiamo dare per scontato che Pantani conoscesse e abbia percorso ogni salita raggiungibile per un allenamento da Cesenatico. 
Se il Memorial Pantani partisse soltanto da Cesenatico e, percorrendo via via queste salite, arrivasse ad esempio a San Marino, potrebbe essere un ulteriore elemento di memoria e, soprattutto, selezionerebbe un vincitore più adatto a ricordare uno dei più grandi scalatori della storia del ciclismo. 
Peraltro, anche la Coppa Placci, con l'arrivo a San Marino attraverso Acquaviva, citato da Pantani in quella intervista (nelle ultime edizioni si partiva da San Marino per arrivare a Imola), non c'è più.

[Immagine: Dies_ist_der_Himmel_desPiraten-1024x768.jpg]
 
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14.02.04 / 14.02.19

Un applauso al Pirata e un pensiero a Marco Pantani, uomo che non doveva morire a 34 anni.
 
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