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Cadel Evans
Quel Tour 2011 è stato davvero fenomenale si. Ammetto di non aver mai tifato Cadel, anzi ero un po' frustrato perchè Andy non era riuscito a vincere, soprattutto dopo l'impresa del Galibier. Evans però se lo è meritato tutto. Memorabile come avete detto anche la tappa di Montalcino.

Sul piano umano nulla da dire, ce ne fossero di corridori come lui in gruppo. Sempre col sorriso, sempre disponibile con tutti. Un signore.
 
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Squinzi: «Con tanti Cadel forse sarei ancora nel ciclismo»
Uomo dai valori e dai principi straordinari

«Non so se con tanti Evans tornerei nel ciclismo, ma una cosa è certa: se avessi avuto in squadra solo ragazzi con la testa, il cuore e l’etica di Cadel, dal ciclismo forse non sarei mai uscito».

Giorgio Squinzi, presidente di Confidustria, amministratore unico di Mapei, torna a parlare di ciclismo in omaggio ad uno dei suoi ragazzi, quel Cadel Evans che con la maglia Mapei percorse un tratto di strada molto importante, ma che poi alla Mapei è sempre rimasto legato.

Il fuoriclasse australiano, il primo canguro capace di aggiudicarsi il campionato del mondo e il Tour de France, ha messo la parola fine alla sua bellissima carriera agonistica. L’ultima corsa ufficiale al Tour Down Under, sulle sue strade. Un terzo posto di grande prestigio, a significare che l’uomo c’è e ci sarà sempre, ma anche l’atleta non era da gettare nel primo cassonetto: Cadel però, come tutti i grandi che si rispettino, ha preferito mettere la parola fine appena in tempo prima di cadere nel ridicolo.
«Se fosse stato per il suo fisico, Cadel aveva ancora tutto per fare almeno due stagioni da protagonista - ci spiega patron Squinzi -. Ma lui è sempre stato un uomo di grande saggezza. Un atleta sensibile e consapevole di ciò che è giusto fare e quando bisogna farlo. Non avrebbe accettato di portare in giro la bicicletta, e per non correre questo rischio ha deciso di dire basta quando i risultati sono ancora confortanti. È un grande segno di maturità e intelligenza, ma non lo scopriamo certo adesso. Mi avrebbe sorpreso se avesse scelto diversamente».

Presidente, quando ha conosciuto questo ragazzo?
«Nel 2001, e devo dire che mi fece immediatamente una bellissima impressione. Io non lo conoscevo. Il primo a parlarmene fu Aldo (Sassi, ndr) una delle persone più belle che io ho potuto conoscere nel mondo del ciclismo e che purtroppo la vita mi ha portato via troppo presto. Aldo mi parlò un giorno di questo ragazzo australiano che aveva già vinto due volte la Coppa del Mondo di mountain bike e che, secondo lui, sarebbe andato molto bene anche su strada se solo noi ci avessimo creduto, perché il giovanotto era convinto del salto. Volli incontrare Cadel, mi piacque subito e lo ingaggiai per la stagione 2002, quella che poi sarebbe stata la nostra ultima stagione agonistica per le note vicende legate alla positività (probenecid, ndr) di Stefano Garzelli».

Lo schiaffo arrivò il 17 maggio, il giorno prima del suo compleanno…
«Fu un compleanno molto triste, lei se lo ricorda bene. La chiamai per annunciarle in anteprima che quella sarebbe stata la nostra ultima stagione, e che a fine di quell’anno avremmo lasciato il ciclismo agonistico».

Torniamo a Evans…
«Perdiamo Garzelli, che era in maglia rosa, e non ci resta altro che andare avanti per onorare la maglia con questo ragazzo che in ogni caso si stava muovendo molto bene. A cinque tappe dalla fine e all’ultima frazione di montagna, Cadel è addirittura in maglia rosa. Io sono davvero al settimo cielo. Mi dico: questo ragazzo ha numeri da vendere. Poi nella ormai celeberrima Corvara-Passo Coe, a cinque chilometri dalla vetta, Cadel va in crisi. Come si dice in gergo, gli si spegne la luce e vive una vera e propria “cotta”. Un crollo verticale. Perde la maglia rosa, perde il Giro, ma noi festeggiamo ugualmente un ragazzo di valore, con una forza morale profonda e vera. Tanto è vero che noi lasciamo il ciclismo, ma lui non lascerà mai noi. Nonostante lui cambi squadra, ovunque vada Cadel impone sempre noi: “i miei preparatori sono al Centro Mapei di Castellanza”, dice a tutti. Lo seguirà fin che può Aldo, dopo di lui uno dei suoi allievi prediletti, Andrea Morelli».

Presidente, lei ha sempre detto che la mano sul fuoco per un corridore non la metterebbe più per nessuno, ma per Evans farebbe questa eccezione?
«Solo per lui. Ha valori e principi che vanno oltre. E le dirò di più, a me Evans piace perché nonostante abbia vinto tanto e bene, nella sua carriera ha subìto però anche tante sconfitte eclatanti. Cadel non ha mai goduto di buonissima stampa. Sì, nessuno ha mai messo in dubbio le sue doti, nessuno si è mai permesso di discutere la sua onestà, ma molti, moltissimi - quando si parlava di lui - erano tutto “un se e un ma”. È sempre risultato una mosca bianca, un oggetto quasi estraneo al sistema, forse era anche per questo che mi piaceva un sacco, perché andava contro a certe logiche e a certe parrocchiette del ciclismo, che tutelano i loro simili. Eppure Cadel è riuscito alla fine anche a vincere un Tour de France e un titolo mondiale, diventando nel suo Paese un simbolo eccezionale».

Cosa porta nel suo cuore di quelle due vittorie…
«Intanto Aldo (Sassi, ndr). Era già malato, molto malato e Cadel a Mendrisio ci regala un gesto tattico e atletico di prima grandezza. Forse l’uomo più forte quel giorno è Fabian Cancellara, altro ragazzo al quale sono molto legato e seguo sempre con grande interesse visto che è passato professionista con noi, ma Cadel riesce a cogliere l’attimo. Un’intuizione eccezionale, ma poi anche gambe, tante gambe, cuore e polmoni. Alla fine, ricordo ancora l’emozione della premiazione. Prima di salire, Cadel viene ad abbracciare sia me che Aldo e restiamo lì per qualche minuto. Tutti e tre piangiamo come bimbi e sento ancora sulla pelle la forza di quell’abbraccio: certe cose non si dimenticano. Il Tour è invece un atto di giustizia, dove lo sport si concilia con chi non l’ha mai imbrattato. Ho un solo rammarico, che Aldo non abbia potuto assistere a quell’impresa. Lui ne era fermamente convinto: “se il ciclismo cambia e rallenta il passo del doping, Cadel può anche vincere un Tour…”. Lui ne era fermamente convinto e aveva ragione».

Come può un animo sensibile come Evans essere anche un uomo che fa dell’agonismo la propria cifra di atleta?
«Cadel intende lo sport con la purezza dei bambini, ma anche con la perseveranza dei grandi professionisti. È entrambe le cose: gioca e lavora. Si diverte e soffre. Sogna e si applica. Si lascia guidare dall’istinto ma vuole anche capire, verificare e approfondire. È il suo bello. Uomo che si commuove, ma che davanti ad una ingiustizia si butterebbe nel fuoco. Cadel è cresciuto, unico ragazzo bianco, in una comunità di aborigeni. Ha patito tantissimo la separazione dei genitori, e con la bici ha trovato la sua strada, la sua dimensione».

Si dice che nessuno è indispensabile, ma quando si perdono uomini come Evans non è facile andare avanti…
«È la vita e tutto continuerà a girare, ma una cosa è certa: senza Cadel il ciclismo si impoverisce. Per questo io spero che la Bmc non se lo lasci sfuggire e che resti in questo ambiente. Io lo vedrei bene anche come dirigente. Ha intuito, metodo e applicazione per poter svolgere al meglio anche questo ruolo. Il 1° febbraio la festa d’addio nella Great Ocean Road Race, che Cadel definisce “la più bella corsa sulla Terra”. Noi come Mapei gli siamo stati vicino anche in quell’ultimo atto agonistico e non potevamo fare diversamente, perché Cadel è davvero uno di famiglia».

Un uomo sul quale magari costruire qualcosa in futuro?...
«Non lo so, perché oggi sono molto impegnato con il Sassuolo, e nei prossimi due anni dobbiamo pensare a far bene nel mondo del calcio, anche perché abbiamo fatto determinati investimenti (stadio di proprietà di Reggio Emilia, il Mapei Stadium, ndr) e dobbiamo portare avanti un progetto al quale teniamo parecchio. Ma come ho avuto modo di dirle, mai dire mai. Una cosa però è certa, se mai qualcosa potesse nascere, un uomo come Evans lo vorrei certamente al mio fianco. Ma il ciclismo dovrebbe anche dare dei segnali di rinascita. Bisogna proseguire la lotta al doping, ma è necessario anche che l’Uci capisca che occorrono più certezze e regolamenti semplici. Le squadre non possono più essere considerate solo entità dalle quali trarre quattrini. In ogni caso, per il momento, questo non è un nostro problema. Io al ciclismo voglio è vorrò sempre bene, spero che anche il ciclismo se ne voglia un po’ di più».

Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di febbraio
http://www.tuttobiciweb.it/index.php?pag...&cod=76837
 
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